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Volevo fare l'architetto

        Volevo fare l’architetto ultima parte
     
 Dunque i problemi relativi alla professione di architetto sono molteplici, da una legislazione disattenta alla mancanza di una educazione culturale da parte della committenza, dall’inesistenza di un percorso universitario di qualità ad uno Stato padrone che esige ma non concede, se oggi sono un architetto non devo ringraziare nessuno tranne i miei genitori che hanno creduto in me e mi hanno dato tutto quello di cui avevo bisogno per realizzare il mio obiettivo. Dal momento in cui sono nato, a quello in cui sono diventato architetto, lo stato Italiano non è mai stato presente, i redditi degli architetti sono ormai caduti tanto in basso da essere annoverati come i nuovi poveri. Concetti quali creatività, ricerca, innovazione sembrano ormai spariti nel nulla ed è per questo che nella progettazione di spazi pubblici (scuole, biblioteche, teatri ecc…) e non solo, l’attenzione verso i materiali, lo studio del rapporto con il contesto sono caduti in disuso verso una progettazione più spicciola, meno attenta agli aspetti formali, funzionali e pedagogici, si guarda solo ed esclusivamente il costo finale, meno costa meglio è. Uno dei più grandi problemi di cui soffre oggi il mondo dell’architettura nel nostro paese è la quasi impossibilità per un professionista di accedere al mercato del lavoro e di avere reali possibilità di crescita. Perché le istituzioni non pensano ad investire sui giovani e meno giovani talenti che affollano il nostro paese, invece di farli scappare? E’ evidente quanto sia urgente oggi rimettere in gioco il ruolo della professione e riconsiderare l’architettura come strumento per affrontare le problematiche sociali legate alla cultura progettuale contemporanea. Bisogna indagare sul ruolo e sulla figura evolutiva della figura di architetto, manca una visione globale capace di delineare la sua funzione, l’Italia è il Paese dove gli architetti sono meno rappresentati e forse anche per questo sono meno rappresentativi e l’unico dove si delega la cura di un Patrimonio così importante e consistente a competenze inadeguate, un ruolo operativo, decisionale e progettuale con conseguenze dirette sull’assetto del territorio, che deve essere riconosciuto di pubblica utilità. Occorre promuovere il ricambio, la proposta, la progettualità, creare strutture normative più snelle e dinamiche più attente alle esigenze reali del territorio, dei cittadini e non ultimi, degli architetti, capaci di rappresentare le esigenze della collettività.
      Ed eccoci arrivati alla fine della storia, di questo sfogo che probabilmente non servirà ad apportare alcuna modifica allo stato di cose fin qui descritte, certo, non ho alcuna pretesa di velleità, ma almeno è servito al mio sé per liberarmi un po’ dal peso o dai pesi che incombono sulla nostra professione e credo su tutte le professioni e di tutti i lavoratori di oggi in Italia, giovani e meno giovani. Mi ritrovo ancora oggi a pensare cosa voglio fare da grande a 40 anni passati, come potermi ritenere soddisfatto professionalmente ed economicamente, come potermi reinventare come poter vivere e garantire un futuro ai figli che non ho e non posso avere. Come posso pensare di avere figli se non riesco a mantenermi? Penso ogni giorno a quali potrebbero essere le alternative e non riesco ad andare contro le mie aspirazioni, non posso accettare di vivere per lavorare, non posso accettare di sottomettere le mie ambizioni per un pugno di Euro, per cercare di arrancare per arrivare a fine mese, non posso più accettare questo stato di cose, effimere, transitorie, precarie. Non posso più accettare di essere governato da uno stato padrone, che dà un contentino ogni tanto ai propri sudditi e non posso più accettare di sopravvivere, di nuotare in un oceano con l’acqua alla gola, mi sento soffocare. E’ ora di dire basta e lo dico a tutti i colleghi che fino ad oggi hanno accettato queste assurde ed immorali regole, è il momento di dare un segnale forte, non abbiamo nessuna garanzia di pensione, di crescita e sviluppo. I miei sogni sono ancora in volo, così come i miei obiettivi, alla tristezza del pensiero di un territorio continuamente defraudato e depauperato, oppongo la mia forza, la mia fermezza, la mia ostinazione, Giordano Bruno in punto di morte disse: “sul rogo brucerete soltanto l’involucro terreno ma le mie idee sopravvivranno”. 
     Carlo Gibiino 


       Volevo fare l’architetto parte 2
     
Nell’ambito della professione di architetto entrano in gioco anche l’inesistenza di una educazione culturale da parte dei committenti i quali pretendono di essere loro i direttori dei lavori e l’architetto serve solo per mettere un timbro e sbrigare tutte le infinite incombenze burocratiche. E’ la committenza che pretende di decidere tutto al tuo posto anche la parcella e qualsiasi cifra puoi pensare è sempre troppo alta, sbagliano i colleghi quando si prostrano ai piedi del committente diventando ancora una volta schiavi tuttofare senza ricevere nulla in cambio se non abusi, soprusi ed insulti, tempestati da telefonate anche il sabato o la domenica per sapere a che punto è la “pratica”, perché di questo si parla. Il committente non riesce a capire le enormi responsabilità che derivano dall’allestimento di un cantiere, dal mettere una firma su di un progetto o una relazione tecnica e chi come me cerca di essere sempre preciso e puntuale, si ritrova ad essere preso in giro anche dalle amministrazioni che si chiedono perché questo eccesso di zelo, perché tutti quei fogli, basta fare un “disegnino” e scrivere quattro parole, perché più si scrive e si disegna e peggio è!!! Una macchina burocratica lenta e pesante come un macigno finisce per insaporire le delusioni fino a quel momento accumulate e conclude definitivamente il passaggio dall’entusiasmo alla demoralizzazione e al senso di depressione e oppressione. Il committente non è mai deciso, e in un cantiere ci saranno sempre nuove sorprese, si presentano una, dieci o cento varianti ovviamente a gratis, oppure resta tutto com’è, tanto esiste la sanatoria. Come un architetto può sentirsi realizzato e appagato dal proprio mestiere? Un mestiere che ha scelto, al quale si è dedicato e si continua a dedicare nell’aspettativa di crescere e di conoscere sempre più per migliorarsi e poter affrontare nuove sfide progettuali. Ho partecipato a diversi concorsi di idee, l’unico modo per fare l’architetto, per continuare a studiare e qualcuno l’ho pure vinto, ma in Italia i concorsi sono effimeri, illusori in quanto l’opera non viene realizzata, ma che senso ha indire un concorso di idee per poi gettare le suddette idee nel cestino? Anche a Caltanissetta è stato fatto un concorso al quale io mi sono rifiutato categoricamente di partecipare direttamente, diciamo che ho semplicemente aiutato alcuni colleghi nelle rappresentazioni grafiche, comunque, il concorso è stato vinto da un gruppo di progettisti di Palermo, e il progetto è stato completamente stracciato, fatto in mille pezzi e buttato nell’inceneritore; al suo posto è stato realizzato una splendida pavimentazione stradale, quindi tirando le somme, noi cittadini abbiamo investito una ingente somma di denaro per migliorare l’architettura e l’urbanistica della nostra piazza, e invece quei soldi sono serviti semplicemente come compenso ai proggettistivincitori. Caltanissetta, la mia città, sta lentamente ma inesorabilmente morendo, chiudono le attività, i negozi e sempre più giovani e meno giovani decidono di scappare, chi resta cercando di combattere questa lenta esecuzione, viene sistematicamente ignorato sia dalle istituzioni ma anche dalle altre realtà (associazioni, enti ecc..) perché qui vige ancora il concetto che ciò che è mio è mio e ciò che è tuo è mio. Ho cercato diverse volte di coinvolgere le altre associazioni, gli ordini professionali, gli assessorati competenti, al fine di raggiungere un obiettivo comune, il bene della nostra città. Ho sempre ricevuto indifferenza, ostacoli insormontabili e muri di lava incandescente. L’ordine professionale è del tutto assente a qualsivoglia forma di tutela, o di evoluzione della professione, certo adesso sono stati obbligati per legge a curare il costante e continuo aggiornamento delle competenze professionali - Dpr 137/2012 – ma l’unico risultato è che ci continuano ad assillare con una serie di incontri inutili e noiosi. L’ordine professionale dovrebbe anche essere garante in materia di trasparenza negli incarichi pubblici, e deve inviare alla corte d’appello, ai tribunali, alle preture, alla prefettura ed alla camera di commercio l’albo stampato a cura e spese dell’ordine ogni anno, in modo tale che, gli enti summenzionati possano avere un elenco sempre aggiornato al quale attingere a rotazione per eventuali incarichi. Allora mi chiedo come mai io che sono iscritto all’albo dei CTU del Tribunale da almeno 10 anni, ho ricevuto un solo incarico ed invece ci sono colleghi che ne espletano diversi nel corso di un anno? Perché nessuno controlla sul sistema di rotazione degli incarichi? Chi se non l’ordine professionale ha il diritto-dovere di controllare?
    Si legge sul sito dell'ordine degli architetti di Roma, dal convegno del 20 giugno 2007: Riforma delle professioni  – Dis-Ordine professionale Dialogo con gli architetti romani:
“    In Italia da oltre quindici anni si parla di riforma delle professioni. In Italia da oltre quindici anni si affossa ogni tentativo di riformare le professioni. Intanto il sistema ordinistico mantiene un assetto vecchio, ingessato, anacronistico, che mostra sempre più tutte le sue carenze”.
    L’Ordine degli Architetti di Roma è convinto che, così come sono organizzati oggi, gli Ordini professionali non funzionino più e che il persistere di azioni corporative di lobby che, di fatto, puntano a mantenere lo status quo, è dannosa per il nostro sistema professionale ed è dannosa per il mondo degli architetti italiani. Abbiamo bisogno di modernizzare i nostri sistemi di rappresentanza, intensificare le azioni di formazione e aggiornamento professionale, favorire azioni di internazionalizzazione e di promozione all'estero dei progettisti, affrontare le emergenze occupazionali dei giovani: per fare tutto questo abbiamo bisogno di strumenti nuovi. Per questo gli ordini professionali o si cambiano o si aboliscono. E come non essere d'accordo!! Il gap culturale che esiste tra professione e opinione pubblica è talmente alto, che bisogna urgentemente agire attraverso campagne di sensibilizzazione, volte ad avvicinare la popolazione all'architettura, occorre che i cittadini si rendano consapevoli del significato di qualità architettonica. Qualità vuol dire ricerca, aggiornamento, gestione consapevole del territorio, dei rifiuti, dei trasporti, dell'energia, degli spazi; l'architettura, come scienza e come arte, ha una grande responsabilità, - pensiamo ai materiali impiegati, all’impatto sull'ambiente, alla politica del riuso -, sulla qualità del vivere quotidiano. La qualità architettonica è il riflesso del grado di evoluzione di un Paese. Nel corso degli anni, la maggior parte degli Ordini soprattutto nelle grandi città, si sono trasformati in luoghi di potere dove coltivare il proprio orticello, e hanno dimenticato i compiti principali per cui sono stati istituiti dalla Legge 1395 del 1923 e dal successivo Regio Decreto n.2537 del 1925. Nel libro "I veri intoccabili" di Franco Stefanoni, dove ci dipingono come una casta, dicono: “il 44% degli Architetti è figlio di Architetti” “una macchina del privilegio, con meccanismi e regole scritte e non scritte”.  Bhe….ormai non ho più dubbi, gli ordini professionali vanno aboliti!!! La professionalità non deriva da una mera iscrizione ad un registro ma dall’esperienza maturata sul campo.
         Carlo Gibiino

           Volevo fare l’architetto
       
Da parecchio tempo, una domanda “turba” il mio pensiero quotidiano, chi è l’architetto? Ma soprattutto che mestiere svolge? Non mi è certo difficile pensare immediatamente al mondo dell’edilizia, mettendo per un attimo da parte la sua etimologia greca, e prendendo invece per corretta quella “moderna”! Prendo dunque in considerazione, le sue origini più fanciullesche, e penso immediatamente ai designers, ai loro viaggi mentali, alle linee morbide e accoglienti, ai tratti spigolosi e decisi, alla dinamicità e compostezza del design (letteralmente progetto), penso al ritmo modulare, all’armonia delle forme. Così mi capita di pensare ai “designers nostrani”, in questo caso non si vuole intendere lo specifico mestiere di disegnatori industriale, bensì coloro i quali lavorano per progettare le nostre case, le nostre strade, le nostre scuole, biblioteche, ospedali, teatri, chiese ecc… Mi domando come mai nella nostra realtà, il ruolo di designer, nella storia degli ultimi 50 anni, viene affidato a parecchie figure professionali, di indiscusse capacità nascoste, tranne che all’ architetto? L’architetto, nella sua formazione professionale, è costretto a scontrarsi quotidianamente con la sociologia moderna, con i processi cognitivi, senza tralasciare gli aspetti puramente scientifici, indaga sul senso dell’essere e sul suo archetipo, cerca di fondere forma e sostanza, estetica e funzionalità, licenza poetica e rigore, al fine di garantire una migliore fruizione degli spazi. E’ almeno da vent’anni che sento parlare di tutela, valorizzazione, conservazione e fruizione di spazi pubblici e più in generale di patrimonio culturale e storico artistico del territorio Italiano, ne parla l’articolo 9 della Costituzione, ne parlano i Piani Paesistici Territoriali, le Università, le convenzioni internazionali, le soprintendenze, i comuni le ex province, insomma se ne parla e poi? Esiste davvero una volontà politica di gestione del territorio e delle sue peculiarità storico artistiche e naturalistiche? E’ sotto gli occhi di tutti ormai, sia agli addetti ai lavori che ai non addetti che non esiste una pianificazione olistica che possa concretamente dare delle risposte ai problemi di uno specifico territorio, o meglio esistono come detto in precedenza tante, forse troppe leggi e leggiucole, come al solito si riempiono Km di carta ai quali poi non segue un percorso fattivo, così come, non pretendo di generalizzare, ma nella realtà che vivo non esistono pianificazioni volti alla concreta crescita di una intera popolazione sotto tutti gli aspetti, economici, sociali e culturali. La Sicilia è un vasto e ricco territorio ma purtroppo abbandonato a se stesso con una classe dirigente incapace di sottolineare i molteplici aspetti positivi di una regione continuamente martoriata da innumerevoli calamità sociali. La Sicilia e più in generale l’Italia non cresce e così anche la popolazione abituata al malaffare e sostenuta dal principio “fatta la legge scoperto l’inganno”. Tutti sono più furbi degli altri, le regole sono state inventate per essere infrante, si certo sono d’accordo, ma non può diventare una regola di vita, pochi sono coloro che si interessano alla “Res Pubblica” la maggior parte non reagisce perché crede che non la riguardi direttamente, perché c’è chi se ne interessa. E’ una questione di senso civico concetto ormai caduto in disgrazia negli ultimi decenni. E’ triste sentirsi abbandonati dalla propria madre – madre patria – ormai egoista e prevaricatrice che pretende continuamente e costantemente senza dare nulla in cambio.  In Italia si lavora solo ed esclusivamente per pagare una enorme quantità di tasse, i lavoratori sono continuamente vessati da uno stato padrone che ha creato negli anni una forma di schiavitù capitalistica condita da malaffare e raccomandazioni, per cui chi ha un’istruzione e degli obiettivi è costretto a scappare. In Sicilia c’è un detto “ cu nesci arrinesci” ( chi esce riesce), vuol dire che se espatri riesci a raggiungere i tuoi obiettivi, certo non senza difficoltà, ma è gratificante e stimolante arrivare a tagliare la linea dei propri traguardi cosa che nel nostro bel pese è impossibile ed è anche inutile cercare di porsi degli obiettivi a meno di essere il figlio o figliastro di turno allora vivrai una vita serena e piena di soldi ..si sa…con i soldi puoi comprare di tutto. Ormai il 40% dei laureati espatria e con il passare del tempo questo dato continuerà ad aumentare inevitabilmente e se da un lato sono contento e mi auguro che così sarà, dall’altro mi sento triste e incazzato nero. A cosa mi serve un istruzione di “alto grado” se poi mi devo re-inventare ogni giorno? Adesso è il momento del concorsone scuola, dove si decanta l’immissione in ruolo di più di 60.000 docenti, concorso al quale parteciperanno centinai di migliaia di laureati e non perché è un obiettivo, ma perché è l’unico obiettivo, quali sono le alternative? Bene in realtà ci sono altre due alternative: 1. entrare a far parte delle forze dell’ordine o del corpo dei militari, 2. entrare in politica, ecco tutte le opzioni che lo stato Italiano mette a disposizione dei suoi cittadini. Tre posizioni molto delicate e dedicate a chi ha veramente passione. L’insegnamento sta alla base educativa di un sistema sociale, il poliziotto rischia la propria vita ogni giorno per far rispettare regole create da chi poi non le rispetta e non le fa rispettare e il politico deve fare il bene della comunità. Vedo in questi mestieri umiltà, dedizione e rispetto, ma come si può pretendere tutto questo da chi sceglie di intraprendere le suddette carriere solo ed esclusivamente per interesse personale? Chi sceglie uno di questi percorsi lo fa per bisogno e viste le premesse non a torto.
     Carlo Gibiino



        Distopia architetturale (parte3)

     
Altro esempio tutto siciliano è Gibellina, distrutta dal sisma del 1968, insieme agli altri paesi della Valle del Belice ha rischiato che, un progetto del governo, la facesse diventare un unico grande agglomerato industriale. La “nuova” Gibellina sorge a 18 chilometri di distanza dai ruderi della vecchia città localizzata su un terreno pianeggiante in prossimità di importanti assi di collegamento, autostrada e linea ferroviaria, un grande museo a cielo aperto ricco di opere d’arte e di cultura. È una città giardino, pensata e costruita come il "moderno", caratterizzata dall'ampiezza delle strade e dalla grande distanza tra le abitazioni. La struttura urbanistica è caratterizzata prevalentemente dall'alternarsi di strade carrabili e pedonali, con case a schiera dotate di piccolo giardino.
     Prima del terremoto Gibellina era una piccola cittadina con poco più di 6000 abitanti divisa in sei quartieri, confinante a nord con la provincia di Palermo, ad est con Poggioreale, a sud con Salaparuta, ad ovest con Santa Ninfa e a nord-ovest con i comuni di Calatafimi e Alcamo; insomma, una posizione centrale, anche se per raggiungerla bisognava percorrere strade scomode e quasi impraticabili, difficoltà che indubbiamente costituirono un limite naturale al suo sviluppo economico, ma che insieme consentirono agli abitanti di conservare, forse con maggiore fedeltà di altri siciliani, il ricordo della tradizione, dei costumi e della memoria complessiva del passato. Entrando in paese una porta a forma di Stella si erge maestosa, alta 24 m è realizzata in acciaio inox da Pietro Consagra, in viale degli Elimi si trova il palazzo Di Lorenzo di Francesco Venezia, una particolare casa – museo in cui si sovrappongono stili antichi e moderni. Andando oltre si può ammirare il Meeting, bar ristoro di Pietro Consagra, il Teatro anch’esso opera di Pietro Consagra, la Chiesa  Madre di Ludovico Quaroni, il Sistema delle piazze, di Laura Thermes e Franco Purini, in piazza XV Gennaio 1968 vi è il Municipio progettato da Vittorio Gregotti e Giuseppe Samonà. Da non dimenticare il “Cretto” di Alberto Burri, un candido sudario steso sulle rovine della vecchia città, per conservare le memorie del passato nella nuova realtà che ogni estate si trasforma nel palcoscenico delle Orestiadi. Finalmente in Sicilia, avremo una città, pensata e progettata da architetti urbanisti ed artisti, un momento di crescita culturale ed economica, sia per i cittadini gibellinesi, sia per tutta un’intera regione, orgoglio dei manicomi. Fantastiche ipotesi, che però non hanno avuto il loro seguito, perché Ghibellina, la splendida città giardino, è stata abbandonata, si! Abbandonata, sia dagli abitanti, sia e soprattutto dalle istituzioni. Sicuramente Gibellina è un’opera d’arte, ma come spesso succede, l’arte rimane solo per pochi, e non per tutti, infatti per gli addetti ai lavori, (professionisti e studenti) è sicuramente un’ottima base di studio, ma per la maggior parte della gente, e soprattutto per i gibellinesi, di quella opera d’arte, non se ne fanno assolutamente nulla. Gibellina, sembra ormai una città fantasma, abitata solamente dai suoi austeri monumenti, inno alla vita e alla crescita, ma tutto hanno portato tranne questo; si intravede passare, ogni tanto qualche timido turista, che frugalmente scatta qualche foto qua e là. Certo, l’architettura da sola non può niente, e naturalmente poi si parla della cosiddetta “cattedrale nel deserto”, ma come mai, in Europa tutto questo non succede?, come mai da almeno una ventina d’anni, si tende verso una “politica architettonica” che riesce a mandare avanti tutti quegli ingranaggi che regolano la vita quotidiana? Lo vediamo in Francia, in Germania, in Olanda ed in tutti i paesi bassi, ma soprattutto lo vediamo in Spagna, uno stato, che fino a qualche tempo fa, e non troppo, sicuramente non era quella che è diventata oggi; una Nazione all’avanguardia. Io credo in noi “giovani” professionisti, mentalità diverse, culturalmente avanzate, e matematicamente incazzate!!!!  Credo nel futuro di Gibellina, credo nel futuro della Sicilia, credo nella “politica architettonica”, che certamente non da sola, possa dare lavoro e ricchezza oltre che belle case nuove fiammanti solamente da abitare. In Europa e in tanti altri paesi, l’architettura viene scelta come simbolo di rinascita, rinascita culturale ed economica, nel 1889 Gustave Eiffel viene inizialmente criticato e osteggiato per la costruzione della sua “Torre”, che doveva testimoniare la potenza industriale francese, fu realizzata ricorrendo al compromesso che dopo vent'anni sarebbe stata smantellata. A favore del mantenimento della Torre giocò il fatto di servire da antenna radio (grazie anche a questo i francesi avevano potuto intercettare i messaggi radio dei tedeschi e approntarsi per la battaglia della Marna). Fu istituita una apposita commissione che decise su votazione (con solo un voto di scarto) per il mantenimento della torre. Oggi la Tour Eiffel è il simbolo di Parigi con milioni di visitatori da tutto il mondo che si mettono in fila per ammirarla. Si pensi che i costi di costruzione vennero ammortizzati in un solo anno, in fondo è stato un ottimo investimento. Berlino negli anni novanta era una città disastrata ricca di vuoti urbani e ruderi, ma grazie alla volontà istituzionale si è velocemente trasformata in una città che ha fatto della contemporaneità il suo punto di forza. Il Reichstag di Berlino è rimasto un rudere fino alla caduta del muro nel 1989, poi l’architetto Norman Foster propone un recupero con materiali e forme innovative che richiama visitatori da ogni dove, la Potsdamer Platz, punto nevralgico, dove già nel 1908 transitano 35 linee tranviarie ed è insediata la stazione di testa di una delle più importanti linee ferroviarie nazionali e internazionali. Dopo la guerra, il poco che rimane in piedi viene tagliato in due nel 1961 dal muro, rendendo di fatto impossibile l’utilizzo degli assi viari. A partire dal 1989, si può immaginare quindi la difficoltà nel cercare di ricucire uno spazio così frantumato. Oggi quello coordinato da Renzo Piano è considerato uno tra gli interventi di recupero urbano più rilevanti a scala europea. Ed infine l’Isola dei musei, per ricordare le radici della nazione, i grandi artisti e gli interessi che hanno influenzato la cultura tedesca. E poi ancora Dessau con il suo Bauhaus università moderna in stile “arts and crafts” ideata da Walter Gropius e grazie ai maestri che vi hanno insegnato, è diventata un punto di riferimento passato e presente,  Villa Tugendhat a Brno di Ludwig Mies Van Der Rohe, e Londra con il recupero della ex centrale elettrica, oggi museo dedicato all’arte moderna e contemporanea il Tate Moderne e le migliaia di interventi realizzati con gusto all’interno della “city”, lo stesso accade a Copenaghen, il suo simbolo è oggi il “Black Diamond” l’ala high tech della vecchia Royal Library,  Praga con il suo palazzo simbolo Ginger e Fred ovvero “Nationale Nederlanden Building”, uno degli edifici più affascinanti, ma per certi versi meno conosciuto, della storia dell’architettura contemporanea diversamente da come si potrebbe immaginare  non si nota più di tanto, rispetto al contesto in cui è immerso, infatti ho dovuto faticare non poco  prima di trovarlo, mentre, appena arrivati, all’incirca intorno le 10.00 del mattino, percorrevamo in macchina la sponda del fiume sul quale si appoggia delicatamente, così come si interseca delicatamente con gli edifici circostanti, in una elettrica danza e in tantissime altre città, che hanno fatto della contemporaneità un pregio e una rendita economica.
     Carlo Gibiino

          Distopia architetturale (parte2)   
  

     Un nuovo approccio alla progettazione urbana, fa assumere ai bambini un ruolo determinante, in quanto portatori di idee, esperienze ed esigenze diverse, fino ad oggi mai ascoltate, potenzialmente molto creative e garanti di una migliore qualità della vita anche per gli adulti. In tale processo diventa fondamentale il rapporto periodico fra bambini, cittadini, associazioni e Amministrazione al fine di realizzare un progetto davvero condiviso. Il coinvolgimento delle scuole è quindi di fondamentale importanza! Il vero problema è che in Italia non esiste una legge nazionale che garantisca l'attuazione di questi obiettivi e che obblighi a perseguire uno sviluppo sostenibile delle città. Il D.Lgs. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE), che ha sostituito la legge Merloni del 1994 (legge quadro in materia di lavori pubblici) non contiene nessun riferimento alla progettazione partecipata, né vincola le istituzioni ad uno sviluppo sostenibile. Oggi tutte le pratiche urbanistiche dipendono da leggi regionali e solo la Toscana, l’Umbria e l’Emilia Romagna hanno redatto una legge ad hoc  che riguarda la progettazione partecipata.
      Esistono però due direttive europee:
• la 
42/2001, legata alla sostenibilità e che impone a piani e programmi di un certo rilievo territoriale la procedura della VAS (Valutazione Ambientale Strategica), prevedendo il coinvolgimento delle comunità locali nell’analisi dello scenario;
• e la 
35/2003 che sancisce la necessità di attivare processi di partecipazione territoriale. Queste direttive non sono però prescrittive, ma sono gli Stati membri a scegliere se adottarle o meno.

     Ad oggi sono molti gli esempi di urbanistica partecipata in Italia. Secondo i dati dell’ INU, sono circa 200 i casi di pianificazione partecipata segnalati alla commissione volontaria; si può affermare con certezza, quindi, che siamo nell’ ordine di grandezza di qualche centinaio di episodi da Milano a Torino, Genova, Potenza, Bologna, Firenze, Roma e tanti altri comuni piccoli e grandi. Dove si può parlare di “consuetudine” e “maturità” nella pratica della partecipazione è la Gran Bretagna; qui, infatti, è un dato acquisito da quarant’anni. Nick Wates, scrittore, ricercatore, professionista e consulente con un’esperienza di più di 25 anni sul campo, descrive, come esempio, la realizzazione del Piano di Sviluppo Locale per Bexhill. Anche in Francia, grazie ad una normativa sul paesaggio, la partecipazione dei cittadini viene promossa rispetto alla redazione di vincoli ambientali, trasformazioni e gestioni cooperative. La Germania, come spesso accade, anche in questo caso riesce ad avere un posto d’onore nell’albo delle nazioni che attuano urbanistica partecipata grazie alle numerose esperienze riscontrabili sul territorio. Tra i diversi esempi ricordiamo la Stadterneuerung: processo di rigenerazione urbana che sta coinvolgendo Berlino da circa 15 anni.
   “In Italia l’opposizione alla partecipazione è stata indubbiamente dura, ma questo è stato anche facilitato dalle posizioni deboli e dogmatiche di quelli che proponevano la partecipazione come processo meccanico e automatico secondo il quale basta andare dalla gente, chiederle quali sono i suoi bisogni e poi trascrivere le risposte in progetti grigi il più possibile. La partecipazione è molto più di così: si chiede, si dialoga, ma si “legge” anche quello che la vita quotidiana e il tempo hanno trascritto nello spazio fisico della città e del territorio, si “progetta in modo tentativo” per svelare le situazioni e aprire nuove vie alla loro trasformazione. Ogni vera storia di partecipazione è di un processo di grande impegno e fatica, sempre diverso e il più delle volte lungo ed eventualmente senza fine. La partecipazione impone di superare diffidenze reciproche, riconoscere conflitti e posizioni antagoniste. È difficile che il dialogo si apra subito a una fluente e efficace comunicazione. Ma quando si raggiungono fiducia e confidenza, allora il processo diventa vigoroso, spinge all’invenzione, innesca uno scambio di idee che viene continuamente alimentato dall’interazione dei vari modi diversi di percepire le questioni portate nel dibattito dai vari interlocutori. […] Per questo non esistono ricette per la partecipazione. Se cambiano i partecipanti e le ragioni per cui si sono incontrati, cambia la partecipazione: bisogna inventarla e esperirla ogni volta da capo” (G. De Carlo, 2002).
    In Italia è diventato tutto estremamente difficile e complesso, forse lo è sempre stato, ma col passare degli anni mi rendo conto che il groviglio burocratico e la sistematica ignoranza generale ha prodotto gravi e perenni danni alla società e alla realtà che ci circonda. Quando ero giovane volevo anche io essere un “archistar” con incarichi milionari e progettazioni senza limiti, crescendo mi sono reso conto invece che voglio essere un “antistar”, l’architettura è arte, tecnica, sociologia, politica, psicologia, è estetica e funzionalità, è raziocinio e follia. L’architettura non è un capriccio, non è scultura non è qualcosa di autoreferenziale. L’architettura deve saper leggere i linguaggi e le vocazioni di uno specifico territorio, acquisirne pregi e difetti e marcarne il suo “Genius loci”. All’estrema teoria conservatoristica bisogna opporre una tendenziale visione contemporanea della vita e del modo di vivere che caratterizza le nostre città. Non tutto va per forza di cose conservato e cristallizzato, così come non tutto va obbligatoriamente sventrato. “In medio stat virtus” dicevano i latini, e il giusto compromesso tra antico e contemporaneo, tra passato e futuro, tra conservazione e innovazione, può essere la strada giusta per recuperare i nostri centri storici e non solo. Le periferie oggi sono, nonostante il divario “generazionale” con il quale sono stati progettati ed edificati, altamente degradate tanto quanto i centri storici ed anche gli esempi più “innovativi” dati in mano ad architetti non sono riusciti nel loro intento. Penso ad esempio al quartiere ZEN (zona espansione nord) di Palermo oggi denominato San Filippo Neri. Il quartiere, interamente costituito da fabbricati di edilizia popolare, si suddivide in due aree, con diverse caratteristiche costruttive, comunemente definite come "Zen 1" e "Zen 2". Lo Zen 2, sorge a partire dal 1969 per opera dell'IACP palermitano su progetto dell'architetto Vittorio Gregotti. Dal progetto di concorso alla realizzazione, lo Zen 2 ha subito delle varianti che hanno modificato la morfologia complessiva del quartiere.  Dopo il 1980 il gruppo vincitore del concorso non fu in grado di esercitare, perché del tutto estromesso, alcun controllo sulle fasi di progettazione e di esecuzione né tanto meno poté influenzare le scelte politico-amministrative che lasciarono lo ZEN 2 privo di servizi.  Il quartiere è specchio della pesante situazione politica e sociale, con alti tassi di dispersione scolastica e microcriminalità. Vittorio Gregotti in un’intervista dichiara:  "Lo Zen lo rifarei uguale al progetto. Lì il solo errore è stato non aver capito quale formidabile potere avesse la mafia. È un fallimento da un punto di vista politico e sociale, ma non architettonico”.  Questo dimostra come l’architettura da sola, anche se di ottima qualità, non possa essere propulsiva sia da un punto di vista prettamente urbanistico, sia da un punto di vista sociologico. Ferdinando Fava antropologo, ricercatore ed insegnante presso l’Università degli studi di Padova scrive: “Proprio attorno al solo spazio modernista progettato da Vittorio Gregotti e al successivo spazio costruito si sono concentrate, in questi anni nella sfera pubblica, le analisi urbanistiche e i progetti pubblici d’intervento, ma è sullo spazio sociale, sul modo d’abitare dei residenti (le loro pratiche sociali) che si è costituita ed accanita la stigmatizzazione dei media e dei dispositivi socio-istituzionali”, e ancora: La rigida griglia ortogonale, priva d’ogni decoro, non offre spazi alla socialità, né mete alla percorrenza, che non siano gli interni delle insulae. Sicché l’insieme, se contiene una ricca articolazione di spazi d’abitazione, di fatto è del tutto privo di spazio urbano che per essere tale deve pure essere significativo» (Quartarone 2008)”.
       Carlo Gibiino


           Distopia architetturale

     
Il futuro degli edifici è decisamente incerto, alcuni vengono abbattuti per essere sostituiti da altri più efficienti dal punto di vista tecnologico, energetico e ambientale, ovviamente non in Italia dove gli edifici crollano perché vetusti in pratica si autoeliminano, altri che conservano in se stessi una memoria storica che ci ricordano da dove veniamo, chi eravamo, come abitavamo, vengono oggi giustamente ripresi e riutilizzati in base a nuove esigenze. Gli spazi si restringono sempre più, in Giappone ad esempio, è ormai diventata una chimera potersi permettere di acquistare un terreno e fabbricare, sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista prettamente geografico (non esistono più spazi liberi!!!), e chi trova l’occasione di acquistare 50 mq, e ovviamente se lo può permettere, obbliga progettista e famiglia a cercare nuove soluzioni per poter abitare in 30 mq + 20 mq di giardino. Sicuramente una sfida tanto interessante per il progettista, quanto difficile per gli abitanti. In Italia, ormai 100 mq, sono diventati troppo piccoli; e allora che fare? La conservazione dell’architettura obbliga o implica la formazione di una nuova professione? La professione non è sufficientemente preparata per questo nuovo compito largamente basato sul riutilizzo e la riprogettazione di edifici esistenti. E’ una necessità impellente ma è certamente poco pianificata nella formazione. Lo spazio prima o poi finirà e le soluzioni sono due:
1    .     la già largamente e ampiamente discussione sulla progettazione verticale;
2    .     il riutilizzo e la riprogettazione.

      Riutilizzo e riprogettazione intesa anche e soprattutto come nuovo stimolo per far fruire a tutta la popolazione intera di beni ormai dimenticati e abbandonati da tutto e da tutti, anche dal tempo. Nella speranza di superare il concetto di cristallizzazione dell’architettura, mi auguro che ben presto, le nostre amministrazioni possano riuscire nei favolosi intenti rimasti finora tali.
    L’Agenzia delle Entrate ha pubblicato sul suo sito internet le informazioni tecniche relative allo stock immobiliare censito in catasto al 31 dicembre 2014. Si tratta di 73 milioni di immobili per una rendita complessiva di circa 37,5 miliardi di Euro, un patrimonio edilizio immenso che necessita di rinnovamento, efficientamento e messa in sicurezza. “Il dato complessivo si aggrava ulteriormente se si prende in esame in particolare il patrimonio edilizio pubblico, rispetto al quale pesano particolarmente alcuni pregiati edifici a valenza storica (con le evidenti difficoltà d’intervento connesse) ed una più generale vetustà del patrimonio, enfatizzate negli ultimi anni dalle ristrettezze della finanza pubblica centrale e locale. La conseguenza sono municipi, uffici, scuole, palestre pericolosi dal punto di vista sismico e che bruciano (in senso letterale) risorse in ragione della scarsa efficienza energetica delle loro caldaie, dei loro infissi, della loro coibentazione”. (fonte: ENEA idee per lo sviluppo sostenibile). Il patrimonio immobiliare italiano è il più vecchio d’Europa: il 5% degli edifici necessita di interventi urgenti, mentre il 40% richiede misure di manutenzione straordinaria. Lo sconfortante panorama è stato reso noto in occasione del Festival Green Economy di Distretto organizzato nel 2012 presso l’auditorium di Confindustria ceramica di Sassuolo. Eppure una strada per invertire questo stato di cose esiste ed è quella della riqualificazione, del recupero dell’esistente e dell’innovazione tecnologica in edilizia. Ne sono convinte Fillea Cgil e Legambiente, che hanno presentato congiuntamente il rapporto su innovazione e sostenibilità nel settore edilizio “Costruire il futuro”. Secondo lo studio, è necessaria una gestione strategica dell’intero processo di recupero e rinnovamento del patrimonio abitativo attraverso l’applicazione di un mix di soluzioni progettuali tecnologiche e impiantistiche sostenibili che servano anche a metterlo in sicurezza. Tutto questo porterebbe a un innalzamento della qualità della vita dei cittadini e a un aumento dell’occupazione stimato in ben 600.000 nuovi posti di lavoro nei prossimi 10 anni. Bisogna puntare sull’innovazione tecnica e progettuale, senza di essa non c’è sviluppo e nel futuro gli investimenti dovranno essere concentrati nella riqualifica del patrimonio esistente, nelle smart cities e nelle infrastrutture, puntando su sicurezza, sostenibilità, accessibilità e fruibilità”. Bisogna attivare con gli abitanti percorsi di inserimento rendendoli promotori e attori delle trasformazioni, rafforzare l’identità e il senso di appartenenza ai luoghi, in una sola parola: “Progettazione partecipata”.
     La progettazione partecipata affonda le sue radici nel periodo che va tra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo ad opera di Patrick Geddes. Nel suo "Cities in Evolution", Geddes teorizza uno strumento di risanamento e pianificazione della città e del territorio in maniera ecologica, generando matrici ove compaiono "luogo", "gente" e "lavoro". Inoltre sperimenterà diverse volte recuperi urbani partecipati. La partecipazione esprime una volontà generale che si prefigge di attuare principi di giustizia ed equità sociale, i quali permettono di raggiungere importanti obiettivi in termini di qualità efficacia e rappresentatività della progettazione, soprattutto consentono che il piano sia sentito dalla comunità perché contiene le immagini che la comunità locale assegna ai luoghi di vita e di relazione. Gli elementi che caratterizzano i processi di progettazione partecipata sono:
    - la conoscenza locale nei suoi molteplici aspetti culturali ed economici; essa rappresenta il perno dell'analisi territoriale e sociale sviluppata nei progetti di produzione sociale di città e del territorio. Gli abitanti non sono più soggetti passivi, essi divengono soggetti attivi nella progettazione che attraverso una conoscenza specifica dei luoghi e dei problemi, producono un sostanziale salto qualitativo;
    - l'ascolto critico, il continuo scambio tra i diversi soggetti del processo progettuale delinea in modo netto i reali fabbisogni, esplicita i desideri inespressi;
     -  la partecipazione è un laboratorio creativo di comunicazione efficace;
     -  infine i bambini possono essere protagonisti diretti delle nuove esperienze di partecipazione.
      Carlo Gibiino

              Saper leggere il territorio: valorizzazione dell'arte e dell'architettura


     
Promuovere la trasparenza e la qualità dell'architettura, incentivare la creatività e l'innovazione, dare centralità al benessere dei cittadini e dell'ambiente sono i giusti presupposti per arrivare ad una conclusione legislativa. In Sicilia, siamo un passo avanti, almeno sulla carta, rispetto alle altre Regioni, poiché la Legge Regionale 12 Luglio 2001 n. 12, “Disciplina dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture” all’art. 14 prevede l’applicabilità dei concorsi di idee con una serie di commi relativi allo svolgimento del concorso che così recita:  “Art.1. - L’articolo 91 del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 e successive modifiche ed integrazioni, è introdotto con le seguenti modifiche:
a)     dopo il comma 5 è inserito il seguente:
5 bis. Nei casi di cui al comma 5, in cui si ritenga prevalente il valore innovativo dell’idea progettuale, la qualità dell’ideazione e della realizzazione sotto il profilo tecnologico, ingegneristico e/o architettonico, le stazioni appaltanti applicano la procedura del concorso di idee.” Un arma in più che però la Regione, gli Ordini professionali e le Amministrazioni non ne conoscono l’esistenza. Affinché la Legge possa essere applicata nel concreto e con una precisa definizione, però, occorre riformare la normativa e nello specifico:
1.     È obbligo ( e non è facoltà), della stazione appaltante affidare altresì, al vincitore, con procedura negoziata senza bando, la direzione dei lavori (comma 4);
2.     Eliminare la seguente dicitura: Il soggetto vincitore deve essere in possesso dei requisiti di capacità economica, indicati nel bando, in rapporto ai livelli progettuali da sviluppare (comma 4);
3.     Occorre introdurre nel contesto del codice dei contratti una elencazione di opere e di interventi per i quali le stazioni appaltanti debbono ricorrere all’indizione del concorso di progettazione, e con specifico riferimento  al comma 5bis, eliminare la facoltà ed introdurre l’obbligatorietà dell’applicazione del concorso in rapporto alla sopracitata elencazione.

     Le città, luogo di incontri, scambi, culture, sapori, odori e colori, oggi rappresentano la sconfitta di una generazione di uomini intenti quasi solo ed esclusivamente a fare soldi. Dal secondo dopoguerra ad oggi, le città sono state date in mano a palazzinari, uomini d'affare, manager, imprese edilizie, tutti tranne gli architetti. Le città sono il nostro gioiello, il biglietto da visita di una popolazione, delle sue tradizioni, delle sua culture, del suo paesaggio. Un paesaggio che è stato, nel tempo dilaniato da interessi puramente economici a scapito della bellezza, della funzione, della fruizione. La città "moderna", fatta di scatole, mal isolata acusticamente affacciate su strade asfaltate senza la minima integrazione geografica e con il paesaggio naturale, si congestiona e si estende senza forma, incerta, indefinita. Il D.M. n. 1444/68 all'art. 3, definisce gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e gli spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde pubblico, a parcheggi, spazi che non sono assolutamente riconoscibili e delineati nelle nostre città. Ma cosa si intende per insediamenti residenziali? Le città sono insediamenti residenziali? Perchè non sono stati minimamente presi in considerazione gli standards urbanistici previsti dal suddetto D.M. 1444/68? L'urbanista e l'architetto, organizzano gli spazi urbani e architettonici, definiscono la lo loro posizione e la collegano nel tempo e nello spazio stabilendo percorsi perfettamente efficienti. Bisogna smettere di contrapporre sempre i punti di vista, che vanno invece fusi in una logica di armonia. Bisogna agire con intelligenza e programmazione di comune accordo con le amministrazioni locali, amministrazioni che spesso non sono sensibili ad una pianificazione territoriale strategica. Ne consegue quindi che gli obiettivi strategici si riducono ai pochi derivanti dalle priorità politiche espresse nella direttiva di mandato, tali obiettivi, però, non rappresentano tutti gli obiettivi strategici rilevanti, l'integrazione tra politica e amministrazione, serve ad impedire che ci siano attività di gestione che sono totalmente assenti nei pensieri politici e, viceversa, obiettivi strategici che non si traducono in programmi operativi. La disorganica sequenza di opere pubbliche delle varie amministrazioni e la disordinata ricostruzione dei centri urbani, eseguita più con spirito di ripristino o di massimo sfruttamento che di miglioramento, rappresenta una sintesi di disordine che una seria e positiva azione di programmazione urbanistica avrebbe potuto facilmente prevenire e superare. Occorre saper leggere il proprio territorio, selezionare le priorità di intervento sostenibili e guidare intorno a queste priorità le risorse pubbliche e private. Un suggerimento ci viene offerto dal legislatore, che in data 27 Febbraio 2004 ha approvato il disegno di legge sulla Qualità dell'Architettura, un disegno di legge quadro che promuove la nascita ed il consolidamento di una cultura della qualità architettonica ed urbanistica, una nozione fino ad oggi sottovalutata nell’ordinamento, e richiama l’attenzione degli operatori ai fini del raggiungimento di standard di progettazione quanto più elevati possibile. Per consentire un inserimento armonico dell’opera costruita nell’ambiente circostante (il cui valore paesaggistico è stato spesso compromesso da interventi architettonici ed urbanistici non sufficientemente ponderati) il disegno di legge individua principi fondamentali a cui attenersi e strumenti capaci di incrementare la qualità architettonica: concorsi di idee ed iniziative di alta formazione con il coinvolgimento degli Ordini professionali, ma anche valorizzazione dell’arte e dell’architettura contemporanea.
      Carlo Gibiino
    
        Perché in Italia non possiamo godere della qualità in architettura

     Bruxelles, 12 gennaio 2001, il Consiglio dell’Unione Europea

            Afferma che:
          a)     l'architettura è un elemento fondamentale della storia, della cultura e del quadro di vita di ciascuno dei nostri paesi; essa rappresenta una delle forme di espressione artistica essenziale nella vita quotidiana dei cittadini e costituisce il patrimonio di domani;
           b)      la qualità architettonica è parte integrante dell'ambiente tanto rurale quanto urbano;
c)     la dimensione culturale e la qualità della gestione concreta degli spazi devono essere prese in considerazione nelle politiche regionali e di coesione comunitarie;
d)     l'architettura è una prestazione intellettuale, culturale ed artistica, professionale. E' quindi un servizio professionale al contempo culturale ed economico.
                Esprime l’importanza che per esso rivestono:
a) le caratteristiche comuni presenti nelle città europee, come l'alto valore della continuità storica, la qualità degli spazi pubblici, nonché la convivenza di vari strati sociali e la ricchezza della diversità urbana;
b)  il fatto che un'architettura di qualità, migliorando il quadro di vita ed il rapporto dei cittadini con il loro ambiente, sia esso rurale o urbano, può contribuire efficacemente alla coesione sociale, nonché alla creazione di posti di lavoro, alla promozione del turismo culturale e allo sviluppo economico regionale.


Incoraggia gli stati membri:
a) ad intensificare gli sforzi per una migliore conoscenza e promozione dell'architettura e della progettazione urbanistica, nonché per una maggiore sensibilizzazione e formazione dei committenti e dei cittadini alla cultura architettonica, urbana e paesaggistica;
b) a tener conto della specificità delle prestazioni nel campo dell'architettura nelle decisioni e azioni che lo richiedono;
c) a promuovere la qualità architettonica attraverso politiche esemplari nel settore della costruzione pubblica;
d) a favorire lo scambio di informazioni e di esperienze in campo architettonico.

Da anni, ormai decenni, si leggono su internet nei portali di architettura, sulle riviste di settore ed anche sui quotidiani locali e nazionali, lunghe dissertazioni sulla qualità dell’architettura in Italia.  Ma perché in Italia, non possiamo godere della qualità? Perché i nostri amministratori, politici ed esperti del settore non si sono impegnati per far vivere le nostre città contemporanee, perché si è abbandonato il senso dell'arte che il nostro paese ha fatto conoscere in passato al mondo intero? E' ora di dire basta con gli scempi, basta con la bruttezza, basta con scatole preconfezionate, nelle quali noi non ci riconosciamo più, basta con le canoniche colate di cemento senza anima e senza identità. Ogni luogo ha il suo personale "spirito", interazione tra luogo e identità, tra cultura e senso civico, tra linguaggio e ambiente. Il rilancio della qualità nell'architettura passa attraverso dibattiti, formazione e informazione, tre necessari strumenti attualmente assenti nella nostra vita quotidiana, la qualità nell'architettura deriva anche da una forte sensibilizzazione dell'opinione pubblica attraverso l'uso di canali convenzionali quali tv, giornali, e soprattutto internet. Bisogna puntare su una elevazione culturale a partire da chi vive la città, fino a chi la amministra, negli ultimi anni in Europa è, infatti, cresciuta la consapevolezza dell’importanza del ruolo giocato dalle città nel guidare l’innovazione e la crescita economica locale e similmente è andato aumentando il bisogno di sviluppare strategie di rinnovamento urbano. L'appartenenza ad un sistema Europeo, e non più semplicemente locale, ha determinato la necessità di fissare nuovamente alcuni elementi per ridefinire l'identità urbana, esclusiva, unica e preziosa per riconoscersi in un percorso interiore di appartenenza. La città contemporanea, riprendendo un concetto caro al sociologo inglese John Urry, diventa oggetto di «consumo visuale» (Urry 1995), ovvero di fruizione estetica, e i valori positivi che l’immagine della città porta con sé fanno della città stessa un marchio per i prodotti e le attività che hanno luogo sul suo territorio. In tale contesto progettare trasformazioni dello spazio urbano significa investire nella produzione di luoghi che si prestano al consumo visuale ovvero incentivare la fruizione estetica della città. Lo strumento del Concorso, seppure non perfetto, rappresenta ad oggi in modo indiscutibile la miglior forma di procedura ed è strumento ormai ordinario nei principali Paesi Europei, non così in Italia ove è ancora una procedura poco e mal usata, l'uso del Concorso per realizzare Opere Pubbliche deve essere uno strumento ordinario, sostanzialmente obbligatorio, e tutte le Amministrazioni devono attrezzarsi per compiere questo indispensabile salto qualitativo. Certo in Italia il tema dei concorsi in architettura è stato spesso affrontato con superficialità, trucchi ed inganni, ricordo un bellissimo sito internet www.arcaso.com ovvero “come il caso, anzi l’Arcaso, accompagna l’architettura italiana”, che ormai purtroppo on esiste più e di cui non ricordo il nome del collega che gestiva il sito, nel quale smascherava periodicamente tutte le magagne rintanate all’interno delle procedure dei concorsi. Per non parlare dei bandi di gara costruiti ad arte per favorire sempre le stesse società di ingegneria, noti studi associati e singoli professionisti di rango, che si accaparrano affidamenti di incarichi professionali, solo perché posseggono forti requisiti finanziari e curriculari, talune volte per quest’ultimi procedendo all’avvalimento di altri gruppi consociati, con la complicità di legge, che non tutelano la qualità, anzi producono progetti seriali di edilizia elencale, che non hanno niente a che vedere con l’architettura. La realizzazione delle nuove opere va affidata esclusivamente sulla base della qualità del progetto e non affi­dandosi a quei gruppi di affari che si sono costruiti la capacità finanziaria e l’esperienza facendo gli scempi che oggi ci ritroviamo. L’identificazione del concorso di progettazione come alternativa, si basa sulla qualità della prestazione professionale e non sul fatturato del progettista o sul ribasso dell’onorario. Ciò che inficia alla radice la possibilità in Italia di realizzare architetture pubbliche di qualità è l’aggiudicazione degli appalti al minimo ribasso, criterio inconciliabile con i presupposti di qualità che ogni architettura deve sottintendere, anche in rapporto ad un sistema tecnologico sempre più complesso. E’ chiaro che inficiando alla base la possibilità di realizzare buone architetture pubbliche, il problema dei concorsi sembra quasi passare in secondo piano, a meno che non ci si accontenti, come per anni è successo in Italia, di vincerli e non realizzarli, situazione ricorrente nella maggior parte della casistica, o se l’opera viene approfondita con livelli di progettazione successivi, questi vengono affidati ad uffici tecnici che nella maggior parte dei casi snaturano l’essenza di prima genitura contenuta nel progetto, venuta fuori dal concorso, per realizzare manufatti di tutt’altro genere.
Carlo Gibiino


          L’Italia non è più un paese per architetti 

     “Con il decreto Sblocca Italia DL. 133/2014, molto ridotto, il Governo Renzi – come peraltro accade tutti i giorni agli architetti italiani – ha sbattuto contro il muro della burocrazia conservatrice che ha mortificato e modificato il progetto di introdurre misure concrete per porre rimedio alla condizione delle città, del mercato dell’edilizia, degli architetti e degli altri professionisti del settore.
     Il Decreto contiene, infatti, solo norme che sarebbero adatte ad un Paese normale in tempi normali: per l’Italia di oggi ci voleva ben altro”. Secondo il Cnappc (consiglio nazionale architetti paesaggisti e conservatori), aver rimandato, nello Sblocca Italia, il Regolamento Edilizio Nazionale, non aver posto limiti temporali alla possibilità della P.A. di revocare un permesso o di cambiare le proprie decisioni, non aver modificato i requisiti di accesso alle gare per i progetti pubblici (che oggi escludono il 99% degli architetti a favore di poche grandi società capitalizzate), non aver varato un vero progetto di rigenerazione urbana sostenibile che mettesse mano agli 8 milioni di edifici italiani che possono cadere alla prima scossa, anche lieve, di terremoto, rappresenta “la pietra tombale per un settore, quello dell’edilizia, che ha già perso metà del suo fatturato”.
“    L’Italia non è (più) un Paese per architetti – denuncia il Cnappc -: redditi medi da ‘incapienti’, senza peraltro avere alcuna garanzia ‘sindacale’ né cassa integrazione né bonus statali; debiti con le banche per quasi la metà dei progettisti italiani che nessuno paga, considerato che i giorni necessari per ottenere un pagamento da parte della Pubblica Amministrazione sono oltre 218, quelli da parte delle imprese 172 e, dei privati, 98”.
     Il nostro territorio ha bisogno di politiche per lo sviluppo per tornare a crescere; le città sono il motore dell’economia, e possono essere considerate catalizzatori di innovazione e creatività, affinché ciò avvenga le dimensioni – sociale, culturale, economico, ambientale – della vita urbana vanno improrogabilmente messe in stretta relazione attraverso un approccio integrato. Il tema della rigenerazione urbana è di grande attualità e può contribuire a ridare vita alla discussione tecnica al fine di calibrare con maggiore successo sia gli strumenti normativi che quelli progettuali.
    La programmazione finanziaria dell’Unione Europea offre nuove ed importanti opportunità per lo sviluppo urbano: quali creazione di lavoro, uso sostenibile delle risorse energetiche, mobilità sostenibile e riqualificazione urbana sono solo alcuni degli obiettivi strategici identificati per il cui adempimento sarà necessario non solo rafforzare il dialogo tra le amministrazioni pubbliche locali, ma anche e soprattutto incentivare gli investimenti. E’, dunque, indispensabile dotarsi di un piano strategico di rigenerazione che ponga gli obiettivi di qualità urbana ed architettonica, di risparmio delle risorse naturali ed energetiche, di efficienza e razionalizzazione della vita urbana, ad un livello prioritario; poiché primo destinatario della rigenerazione urbana sostenibile è e deve essere il cittadino, occorre una “rivoluzione civile e culturale” affinché si diffonda la consapevolezza dell’abitare.
    La ricerca della qualità urbana passa attraverso approcci interdisciplinari che sappiano affrontare le diverse problematiche valorizzando le specifiche potenzialità locali, l’urgenza è quella di riqualificare spazi già esistenti e non valorizzati piuttosto che costruire ex-novo, anche per contribuire a ridurre la crescita urbana incontrollata e l’ulteriore consumo di suolo.  Quello che si cerca di raggiungere con gli interventi di riqualificazione urbana è in definitiva una “sostenibilità” che abbia il triplice valore di benessere, sicurezza sociale e rispetto ambientale. “Dal punto di vista sociale, il coinvolgimento nel recupero urbano e i processi di partecipazione sono oggi divenuti estremamente importanti non solo per promuovere l’identità locale, la condivisione, l’appropriazione spaziale, ma anche per rispondere a fenomeni quali la marginalità, la concentrazione di migranti, l’esigenza di sicurezza, la presenza di fasce deboli della popolazione” (De Matteis M., La riconfigurazione degli spazi aperti, la densificazione e i sistemi naturali come strumenti per la riqualificazione delle periferie residenziali, progetto “Futuro in Ricerca” MIUR).
     I programmi di rigenerazione urbana pongono maggiore attenzione alla sfera sociale e sono volti a combattere la povertà e l’emarginazione sociale, in questo senso, è possibile scorgere una nota evolutiva che va dal pragmatico recupero fisico -spaziale, ad una olistica rigenerazione che si sviluppa attraverso azioni di tipo sociale, economico, culturale ed ambientale. Ma non è tutto rose e fiori, secondo David Madden, docente di Sociologia e Programmazione Urbana alla London School of Economics, la rigenerazione urbana è stata un fallimento: “Rigenerazione urbana, secondo i suoi fautori, vuol dire mettere fine alla povertà. Purtroppo, la realtà è che la povertà viene solo spostata altrove si dice che i quartieri poveri avrebbero bisogno di rivitalizzazione come se l’assenza di vita -opposto ad impoverimento e perdita di potere- fosse il vero problema. Esclusione viene “riclassificata” come “rigenerazione”. La missione liberale di “incrementare la diversità” è utilizzata ampiamente come scusa per allontanare i residenti originali dalle loro aree, in zone come Harlem e Brixton -aree celebri per la lunga storia di lotta politica e diversità culturale – al termine del processo di gentrificazione, si plaude alla vittoria sulla “povertà” ignorando il fatto che il disagio è stato solo   spostato altrove”. (www.theguardian.com).
     In conclusione, la rigenerazione urbana come strumento può offrire grandi opportunità di sviluppo, ma è bene prendere in considerazione anche gli aspetti fallimentari che sono venuti a galla nei processi precedenti per avere una visione quanto più ampia possibile, evitando gli errori del passato. Probabilmente non è il nostro caso in Italia, ma soprattutto in Sicilia, tutto deve rimanere così com’è il cambiamento ci fa paura…chissà perché poi.  Siamo entrati nel III millennio, la nostra vita sta, se pur lentamente cambiando, cambiano le abitudini, il modo di vestire, il modo di mangiare, cambiano i concetti e le definizioni, il modo di incontrarsi e fare amicizia.
    Il concetto di “Moderno” è ormai “Antico”, più che mai quello di “Contemporaneo”. Io intendo come contemporaneo tutto ciò che è presente oggi, in questo momento, in questo preciso istante, davanti a noi: è quello che costruiamo oggi; tutto il resto è passato.“Gli Italiani perdono le guerre come se fossero partite di calcio e le partite di calcio come se fossero guerre” (Winston Churchill). 
      Carlo Gibiino


      Il sistema Italia crolla a pezzi
“    
La fiducia espressa dai cittadini nei confronti delle istituzioni, nonché la partecipazione civica e politica, favoriscono la cooperazione e la coesione sociale e consentono una maggiore efficienza delle politiche pubbliche. Queste dimensioni sono direttamente correlate alla posizione (status) degli individui, ai legami interpersonali, nonché alle reti sociali e alle norme di reciprocità e fiducia che si formano a partire da questi legami. Inoltre il rapporto trasparente con le istituzioni pubbliche e private che operano in campo politico, economico e sociale, la loro efficienza e il livello di gradimento per il loro funzionamento rafforzano la fiducia istituzionale e interpersonale. Al contrario, una diffusa discrezionalità nelle regole, la scarsa trasparenza e la corruzione agiscono negativamente sulla fiducia nella possibilità di realizzare una società equa di cui tutti possano sentirsi cittadini a pieno titolo”. (fonte: ISTAT- l’importanza di efficienza e trasparenza- rapporto BES 2014).
     Tutto questo si traduce ovviamente in un declino culturale, sociale e pedagogico, il popolo italiano è ormai abituato a sentir parlare di crolli, degrado urbano, discariche a cielo aperto, aree abbandonate e ovviamente corruzione, concussione, peculato e quant’altro, che non ci fa più caso, è diventata una situazione di normalità, a differenza  dei paesi del Nord Europa in cui è viva la partecipazione pubblica ai problemi dell`urbanistica e all`integrazione dell`architettura con l`urbanistica stessa. Anni addietro conobbi un ragazzo spagnolo, io ero da poco laureato, dopo i primi convenevoli, arrivammo a toccare temi più complessi ed impegnativi, parlammo di architettura ed urbanistica e devo dire che mi tenne testa benissimo nonostante non fosse un cultore della materia, non in senso scolastico. Capii che la differenza tra me, laureato in architettura, e lui musicista, era l’esperienza esperita. Sono stato diverse volte in Spagna, e posso testimoniare come l’architettura contemporanea, l’urbanistica moderna ed il design sono sempre più presenti nel territorio iberico, Madrid, Bilbao, Barcellona e Valencia lo dimostrano, l’architettura d’avanguardia è presente in tutta la penisola. Nel frattempo in Italia, continuano gli scempi per sfigurare le prestigiose architetture ed opere d’arte del passato, si cerca ancora di vivere di “rendita” senza capire che i fasti di un tempo lontano non possono coprire il gap che si è venuto a creare con gli altri stati membri dell’UE, così si continua a legiferare in maniera spasmodica senza mai passare all’atto pratico.

    L’articolo 9 della Costituzione della Repubblica Italiana recita: “…La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e della ricerca scientifica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico-artistico della nazione…”, codificando ad altissimo livello la protezione giuridica del Patrimonio Culturale italiano. Cosa si intende per Patrimonio Culturale? Il Patrimonio Culturale è un insieme organico (di opere, monumenti, musei, case, paesaggi, città, costumi e tradizioni) strettamente legato al territorio che lo ha prodotto. Questo patrimonio, nel suo complesso, costituisce un elemento portante della società civile e della identità dell’Italia tutta. Rappresenta la ricchezza di – un paese, una città, una nazione, o qualunque settore giuridicamente circoscritto – o anche di un soggetto a cui il patrimonio fa capo (un ente privato, un ente pubblico, un museo ecc.) sul piano culturale e su quello economico, restando destinato alla fruizione collettiva. In altri termini è un insieme di beni materiali e immateriali, la cui espressione immateriale (musei, opere d’arte, case, paesaggi) serve anche a richiamare la parte immateriale costituita dalla cultura, dalla lingua, dai modi di pensare comuni. E allora perché continuiamo a perdere il nostro patrimonio? Nel Marzo 2014 nell'area archeologica di Pompei (Napoli) sono avvenuti altri due crolli. I cedimenti hanno riguardato il Tempio di Venere e un muro di una tomba della necropoli di Porta Nocera, probabilmente a causa delle forti piogge.  Lo ha comunicato la Soprintendenza per i beni archeologici: “la muratura, interessata da alcune lesioni, era già stata puntellata, l'area è stata interdetta al pubblico”. Si è verificato anche un crollo del muretto di una tomba della necropoli di Porta Nocera. Il muretto, alto circa 1,70 metri e della lunghezza di circa 3,50 metri, serviva da contenimento del terreno in cui erano state poste le sepolture ed era costruito contro-terra. Tutti gli accessi alla necropoli sono stati chiusi e gli scavi resteranno interdetti al pubblico fino al completamento delle verifiche del caso e al ripristino del muretto. E questo è solo uno dei tanti esempi e scempi che si continuano a perpetrare nel nostro territorio. L’Italia è un paese colmo di beni artistici e culturali da far invidia al pianeta, ma non riusciamo a tutelarlo come si deve. I beni culturali devono essere riconosciuti, conservati e protetti, ma devono essere anche divulgati, utilizzati e resi fruibili e accessibili. Pertanto, la tutela oltre ad indicare l’interesse culturale del bene, il suo radicamento nel territorio storico, responsabilizza i soggetti proprietari e gestori indicando i valori da tutelare e propone un disciplinare per l’uso del bene personalizzato, mettendo al centro i beni culturali di un territorio, la loro identità, il loro rapporto con la gente, in una prospettiva di sviluppo.

    Altro esempio di scempio, nel Dicembre 2014 appena inaugurato, alla vigilia di Natale, crolla prima di Capodanno il viadotto Scorciavacche sulla Palermo-Agrigento, chiuso al traffico da Anas l’ultimo giorno del 2014. La nota tecnica dell’azienda parla di “un anomalo cedimento del piano viabile in corrispondenza del rilevato retrostante della spalla del viadotto”. Metà carreggiata in pratica è letteralmente sprofondata e la restante presenta una profonda spaccatura. Per fortuna nessun veicolo transitava quando è avvenuto il collasso dell’arteria. L’Anas ha dunque deciso di chiudere alla circolazione veicolare la strada statale 121 del tratto tra il chilometro 226 e il chilometro 227 nei pressi di Mezzojuso. Da Nord a Sud il sistema Italia crolla a pezzi, sotto il peso della corruzione, delle tangenti, del malcostume legalizzato, della mala-politica che ormai permea tutto il tessuto sociale italiano. Regioni, Province, Comuni, parlamentari, consiglieri regionali, provinciali, comunali, presidenti di regione, assessori, ministri, tutti a praticare il "pizzo legalizzato", a pensare agli interessi personali a scapito di quelli della collettività, della "RES PUBBLICA", concetto che ormai si è perso nella notte dei tempi, e la cosiddetta "società  civile"- il popolo, resta in balia di governanti senza scrupolo e politicanti, che invece di fare il bene comune, stanno costringendo le persone per bene, muniti di buon senso, a fare prove tecniche di rivoluzione, ma più che rivoluzione direi emigrazione, il tutto condito da uno squallore nauseabondo. Sempre più italiani lasciano l'Italia, per andare a vivere altrove, per la prima volta, come si legge sull' Huffington Post, in Italia sono più quelli che emigrano che quelli che arrivano. Certe notizie mi lasciano davvero a bocca aperta, mi faccio mille domande alle quali non trovo le risposte giuste, e mentre mi perdo tra i mille perchè ???, guardo con interesse quello che succede nel resto d'Europa, lo vedo, lo vivo, lo condivido e apprezzo quello che di buono c'è, come critico quello che di buono non c'è, bisognerebbe imparare a viaggiare, a conoscere, ad apprezzare a condividere. I viaggi servono ad aprire la mente; Proust diceva: "Il vero viaggio di scoperta non consiste nel trovare nuove terre ma nell'avere nuovi occhi. Che si viaggi per piacere, per lavoro, per amore o per inseguire un sogno, è sempre qualcosa che introduce nella mente il cambiamento e il movimento”. Auguro all'Italia, al mio bellissimo paese, di ritrovare il proprio cammino fatto di prosperità, ricchezza, gioia e voglia di fare, ripercorrendo i fasti del passato, tra arte, architettura, letteratura, grandi invenzioni, uomini e donne che hanno contribuito a fare di questo paese un esempio da seguire. 
      Carlo Gibiino

        Assenteismo istituzionale ingiustificato


     
   Fare l’architetto in Italia è diventato impossibile, sia dal punto di vista professionale che redditizio, vivere di sola libera professione significa essere povero, conosco pochissimi colleghi che vivono in questo modo, la maggior parte di essi sono insegnanti la mattina e professionisti il pomeriggio. Tra edilizia ed aziende in crisi, burocrazia, leggi, norme e decreti che cambiano continuamente, clienti che non pagano, concorrenza sleale, si assiste ogni giorno alla distruzione sempre più profonda della professione di Architetto, oggi definita e degradata a ruolo di “azzeccagarbugli”. “Giudico che sia bene dichiarare chi è quello, che voglio chiamare Architettore percioché lo non ti porrò inanzi un legnaiuolo, che tu lo habbi ad aguagliare ad huomini nelle altre scienze essercitatissimi; colui certo che lavora di mano, serve per Instrumento allo architettore. Architettore chiamerò lo colui, iI quale saprà con certa, e maravigliosa ragione, e regola, si con la mente, e con lo animo divisare; si con la opera recare a fine tutte quelle cose, le quali mediante movimenti di pesi, congiugnimenti, e ammassamenti di corpi, si possono con gran dignità accomodare benissimo allo uso de gli huomini. Et a potere far questo, bisogna che egli abbia cognitione di cose ottime, e eccellentissime; e che egli le possegga.” (Leon Battista Alberti Dal De Re Ædificatoria, 1450).

    Negli ultimi anni sono stati emessi provvedimenti vessatori ed inutili che hanno reso la professione sempre più difficile e meno remunerativa, obbligo di POS, abolizione delle tariffe minime, studi di settore per fare qualche esempio. Fino a due decenni addietro essere architetto significava avere una certa posizione sociale e quindi economica, oggi invece non è rimasto nulla dei fasti del passato. In Italia fa “carriera” il disonesto, l’imbroglione, il furfante siamo nuovamente in schiavitù, o forse lo siamo sempre stati e non ce ne siamo accorti. Certo il benessere nasconde le condizioni indigenti, ma oggi che le condizioni di benessere si sono ristrette a pochi eletti che sfruttano le idee e il lavoro degli altri per speculare, sono venute a galla difetti ed imperfezioni di un sistema assurdo, obsoleto e mafioso. Il lavoro non manca, e non mancherebbe, ma le condizioni sono sempre le stesse in tutto il paese, retribuzioni per lo più assenti o talmente minime da essere assoggettate al grado di sfruttamento. Prendiamo ad esempio stage e tirocini, percorsi obbligati che dovrebbero avere il compito di trasmettere un insegnamento e preparare il giovane neolaureato al mondo del lavoro. Ebbene, durante i suddetti periodi, il giovane laureato viene usato solo ed esclusivamente per avere manodopera fresca e gratuita, è infatti usanza diffusa interrompere la collaborazione finito il periodo di tirocinio ed intraprenderne un altro, piuttosto che continuare a formare il giovane retribuendolo. Per non parlare di orari di lavoro estenuanti, flessibilità che vuol dire lavorare anche il sabato e la domenica, dove le ferie sono un sogno e la pensione un miraggio. Sono pienamente convinto che nessuno dovrebbe accettare queste assurde ed insensate regole di mercato, solo in questo modo si può sconfiggere il sistema mafioso che lo stato protegge, e in qualche modo ha contribuito a creare. Anche perché lo status appena descritto non vale solo per i giovani neolaureati ma è, purtroppo, pratica diffusa anche per i meno giovani, per chi cerca lavoro ed è magari altamente qualificato. E’ ora di dire BASTA a questo assurdo ed insensato sistema, rifiutare di lavorare gratis o con miseri compensi è la strada giusta per cambiare, se tutti rifiutassero di assoggettarsi a queste deplorevoli regole, esse stesse sarebbero costrette ad adeguarsi cosicché le aziende e gli studi professionali, sarebbero obbligati o a lavorare senza manodopera, oppure a trattare i dipendenti in maniera equa. “Essere accondiscendenti per debolezza e per paura è... fatale” ( Winston Churchill). A tutto ciò si unisce un considerevole spreco di risorse umane e di competenze. Alle imprese, agli studi professionali non interessa formare un gruppo di lavoro coeso e stabile, non vogliono più instaurare un rapporto continuativo, non è conveniente da un punto di vista economico, ormai si guarda solo al presente e invece è un grosso sbaglio. Sono convinto che le risorse umane siano il pilastro di una società, qualunque essa sia, soprattutto se ci si trova di fronte ad eccellenze le stesse devono essere premiate perché si distinguono per impegno e capacità nei confronti di altri. Ma la politica meritocratica non è contemplata dallo Stato Italiano, che preferisce attingere le proprie risorse utilizzando altri canali “clientelari” e questo spiega come l’assenza di valori abbia prodotto una classe dirigente debole ed incapace a differenza di altri paesi Europei e non, dove il sistema meritocratico ha prodotto e continua a produrre classi dirigenti forti e capaci, come ad esempio nei paesi Scandinavi o nel nord America. La debolezza dello Stato Italiano è riuscito a creare una certa sfiducia dei cittadini nei confronti della giustizia, della scuola, della sanità, la quale implica una chiusura verso se stessi disincentivando l’impegno pubblico. Tutto ciò si evince dai dati EURISPES nel rapporto 2013 - la fiducia dei cittadini nelle istituzioni - : “Lo scorso anno segnalavamo come il dato sul fronte della sfiducia dei cittadini nei confronti delle Istituzioni fosse il più alto registrato, rispetto alla serie storica 2004-2012, segnando un trend in crescita che non si è mai arrestato negli anni considerati e, quindi, un graduale inesorabile divario e una distanza insanabile tra il corpo sociale e tutte quelle realtà istituzionali che dovrebbero essere preposte a rappresentarlo, ma che di fatto hanno dimostrato di vivere “arroccate nel Castello”, completamente avulse dalle istanze e dai bisogni reali dei cittadini, asfittiche e autoreferenziali. Per il 2013 ancora dobbiamo evidenziare un ulteriore peggioramento nel giudizio degli italiani nei confronti delle Istituzioni e un grado di sfiducia che sale dal 71,6% del 2012 al 73,2% del 2013”. Una politica sempre più lontana dai cittadini attraversa tutto il “Bel Paese”, la popolazione è sempre meno partecipativa ai processi sociali e si informa saltuariamente, stiamo assistendo, nostro malgrado, ad una continua degenerazione del senso civico.
     
      Carlo Gibiino


     " Serve una “spintarella” 
     
In quello stesso periodo, mi capitò l’occasione di lavorare come assistente universitario nel corso di “Recupero e Riqualificazione dei centri storici”, la ricordo come un esperienza altamente formativa. Quando ero studente, chi non l’ha fatto?, avevo preso in considerazione l’idea di poter seguire un percorso da docente universitario, ma due motivi frenarono il mio entusiasmo: 
1   1. Diventare docente universitario è una cosa molto complessa, è una strada lunga e faticosa. Si comincia con la formazione post lauream, magari vincendo un concorso per accedere ad un dottorato di ricerca. Conseguito il dottorato, in un tempo minimo che va generalmente dai tre ai quattro anni, se l’intenzione è di proseguire la carriera universitaria potreste inserirvi in un programma post dottorato, continuando il lavoro di ricerca e realizzando quante più pubblicazioni scientifiche possiate, per accrescere il vostro curriculum vitae. Terminati gli studi post lauream, ed in attesa di un concorso da ricercatore, si può tentare di ottenere un assegno di ricerca. Anche in questo caso si tratta di un concorso indetto dalle università ed, in molti casi, per vincerlo si necessita di una “spinta” da parte del docente che lo ha bandito. Il passo successivo, per proseguire la strada della carriera universitaria, è rappresentato dal concorso per diventare ricercatore, indetto dalle singole università. Per avere qualche possibilità di vincere, dovete avere un ricco curriculum scientifico, pieno di pubblicazioni e svolgere un tema scritto ed un orale eccellente. Il ricercatore rappresenta quindi la prima vera figura di ruolo della carriera universitaria. Nell’ascesa della vostra carriera universitaria a questo punto siete immediatamente sotto la carica di professore associato, ruolo raggiungibile per concorso pubblico con tempistiche e svolgimento identiche a quelle di ricercatore. Identico meccanismo di assunzione lo troverete per la carica di professore ordinario  che nella vostra carriera universitaria rappresenta la più alta qualifica, per un docente titolare di cattedra (fonte: http://www.universita.it/carriera-universitaria/). Bene, in base alle informazioni appena descritte, possiamo fare un rapido conto per capire quanto tempo ci vuole per diventare professore associato, ci sono sei gradi da passare in un tempo medio di tre anni per ogni grado, per cui 6x3 = 18 anni. Allora come è possibile che nel 2000 mi ritrovai un docente di 33 anni con la qualifica di professore associato? Tutt’oggi per me resta un mistero e faccio i miei migliori auguri a quel docente che comunque era ed è molto preparato, disponibile al dialogo e di grande cultura. Come del resto era il padre, seguii con molto interesse le sue lezioni e all’esame si dimostrò un docente che sapeva fare il suo mestiere;
      2. girava voce che senza “spintarella” era impossibile accedere al dottorato di ricerca.
   Per cui quando mi si propose questa splendida occasione, accettai entusiasta. Nonostante di retribuzione non se ne parlava, mi buttai a capofitto, anima e corpo, in quel mondo che conoscendolo sempre più da vicino e soprattutto dall’altro lato della cattedra, mi affascinava sempre più. Aiutavo a preparare le lezioni, assistevo i ragazzi durante i laboratori e partecipai agli esami finali. Mi sentivo molto coinvolto ed anche abbastanza responsabile, per questo cercai di farlo in un modo quanto più coscienzioso possibile. Durante quel periodo però, capii anche che quanto detto nei due punti precedenti, corrisponde a verità, per cui io non avrei mai avuto la più piccola “chance” di poter intraprendere quella carriera che avevo sognato nel recente passato.

    Nel periodo in cui avevo deciso di fare causa “all’azienda dei render”, per ovvie ragioni mi feci vidimare la parcella dalla apposita commissione dell’ordine degli Architetti, lì conobbi un collega che, dopo aver visto i miei lavori, mi propose di collaborare con lui e il suo socio, anche nella partecipazioni ai concorsi di idee e di progettazione. Così mi trasferii dall’amico purtroppo scomparso prematuramente Luigi Picone che insieme all’architetto Giovanni Santagati lavoravano insieme da circa 35 anni. Conobbi due persone meravigliose, che mi insegnarono molto sulla professione, dalla progettazione ai computi metrici, dalla legislazione ai collaudi, nacque un amicizia indissolubile. Partecipammo a diversi concorsi di cui qualcuno vinto, il trio era perfetto ognuno aveva le sue peculiarità le quali messe assieme si rivelarono un percorso vincente. Uno era molto pratico e razionale, l’altro è creativo ed estroso ed io che portai una ventata di novità ed entusiasmo. Lo ricordo come uno dei periodi più fecondi della mia attività di architetto, progettammo scuole, centri multi direzionali, parchi, giardini e monumenti. Nel frattempo proposi di creare un’associazione culturale con la quale avremmo potuto organizzare eventi e manifestazioni legati al mondo dell’architettura e dell’arte, così nel giro di poche settimane creammo la “GLA ( Genius Loci Architettura)”, composta da soli architetti. Organizzammo workshop, dibattiti e anche concorsi di design a livello internazionale, con una risposta altamente positiva sia da parte delle imprese che dei progettisti, gite culturali alla scoperta del nostro splendido patrimonio architettonico e mostre. A parte i soliti ed inutili problemi burocratici, tutto andò per il verso giusto, ricevendo apprezzamenti, da tutta Italia e dall’estero. Le attività furono frenetiche per circa due o tre anni, poi il mio allontanamento all’estero per un periodo di 6 mesi, fece purtroppo crollare immediatamente quello che eravamo riusciti a creare con fatica…ma queste sono storie già sentite. Al mio ritorno presi nuovamente in mano le redini dell’associazione, ma ormai alcuni soci del consiglio direttivo si erano allontanati e restammo in pochi. Nonostante ciò, andammo avanti proponendo altri eventi cercando di dare un contributo, nel nostro piccolo, alla città e al suo territorio. Certo la volontà non manca, ma come dicevano gli antichi “senza sordi nun si ni canta missa e senza stola nun si confessa” concetto molto diffuso nel territorio siculo per dire che non si fa niente per niente.   

Carlo Gibiino


     Cosa c’entra la bellezza? 
   
Concluso il lavoro e soddisfatto, saluto i miei clienti-amici e vado a passare qualche giorno a Copenaghen, una delle città più belle d’Europa, la Venezia del Nord Europa. Per essere una città piccola, Copenaghen è un peso massimo per quanto riguarda l’architettura mondiale, grazie all’enorme ricchezza di talenti che vi sono cresciuti e al desiderio nazionale di creare edifici belli ma anche sostenibili. La città possiede una venerabile storia in architettura ed è la patria di alcuni dei più famosi nomi del settore. Nel 2008 è stata nominata “la migliore città del mondo per il design” dalla rivista inglese Monocle. Il Radisson Blu Royal Hotel, a Copenaghen, è famoso per essere il primo design hotel del mondo, gli interni e l’esterno sono stati progettati nel 1960 dall’architetto di fama mondiale Arne Jacobsen, Ørestad è uno dei quartieri più nuovi della città e presenta un sorprendente miscuglio di alloggi sperimentali ed eccezionali attrazioni di design, tappa obbligata per chi ama l’architettura contemporanea è l’imponente Royal Opera House, realizzata da Henning Larsen nel 2005: la sua ricca programmazione è stata definita una delle più innovative al mondo, il Danish Design Center, il giardino Tivoli il parco di divertimenti più antico d’Europa. Oltre a questi edifici di fama internazionale, comunque, esistono tanti altri esempi di architettura contemporanea che ben si sposano con le preesistenze sette-ottocenetesche.  In pochi giorni riesco a visitare camminando quasi tutta la città, pochissime auto, tantissime biciclette e gente a piedi nonostante il clima non proprio favorevole; conosco tante persone tra cui un uomo separato con due figli, che al momento non lavorava ma che riusciva a sbarcare il lunario grazie alle sovvenzioni statali. Mi parla un po’ della sua vita, è convinto a sfruttare questa sua situazione per qualche mese per poi ritornare a lavorare, in Danimarca trovare lavoro non è un problema mi dice. Parliamo di corruzione, mi spiega che non esiste, se un politico viene sorpreso a rubare, prendere una tangente o sperperare denaro pubblico, egli perde immediatamente il suo posto istituzionale e sociale, per cui pochissimi sono i temerari che si cimentano in tali sconsiderate azioni!
  Dopo una considerevole iniezione di autostima, per gli apprezzamenti ricevuti e per le soddisfazioni professionali ed economiche, mi dirigo verso l’aeroporto pronto a volare verso la Sicilia, è Natale, ma deciso più che mai a ripartire in tutti i sensi. Durante le ferie natalizie, a causa purtroppo di un problema familiare, non riesco a progettare la mia emigrazione, incontro un caro amico che lavora tanto, e mi propone una collaborazione molto interessante. Penso, rifletto, prendo una decisione….resto in Sicilia, amo la mia terra e se riesco a fare il mio mestiere, ad avere soddisfazioni professionali ed economiche e nel frattempo dedicarmi alle problematiche familiari, mi sembra un ottima decisione. Prendiamo degli accordi e cominciamo a lavorare insieme. Il lavoro non manca, ci sono tanti progetti da sviluppare e, rassicurato anche dalle prospettive economiche, mi lancio a capofitto come sono solito fare in questa nuova direzione. E’ un ambito nuovo per me, si tratta di costruzioni dedicate all’imprenditoria agricola prevalentemente con strutture in acciaio. Per cui comincio a studiare la materia e la numerosa letteratura esistente, per cercare di farmi una cultura storica e progettuale. Pieno di entusiasmo propongo nuove idee, credo nella composizione architettonica che possa dare una nuova veste a strutture fino ad oggi abbastanza standardizzate, credo nell’architettura come missione per armonizzare il mondo, Alvar Aalto disse: “rendere lʹarchitettura più umana significa fare architettura migliore, e significa anche allargare il concetto di funzionalismo oltre il limite della tecnica. Questa meta può essere raggiunta solo con mezzi architettonici, creando e combinando le tecniche, così che si possa offrire allʹuomo lʹesistenza più armoniosa possibile”. Conscio della devastazione territoriale ad opera di una edilizia perpetrata in nome di un unico obiettivo, il denaro, condita da appalti truccati a favore dell’imprenditore di turno, edifici progettati da “ragionieri”, mazzette, concussioni e quant’altro, decido che nel mio piccolo, posso dare un contributo alla riqualificazione territoriale e alla perdita di identità. Certo, queste sono tematiche che dovrebbero e devono essere affrontate in ambiti più estesi, coinvolgendo le amministrazioni locali e nazionali attraverso una programmazione urbanistica volta al reperimento degli standard minimi accettabili per preservare,   migliorare e ristrutturare un territorio fortemente violentato da scellerate scelte speculative a danno della qualità urbana, con fenomeni di accelerazione esponenziale del consumo di suolo, dissesti idrogeologici, inquinamenti elettromagnetici ecc.. Sappiamo bene che ai nostri politicanti, certi argomenti non interessano, ma preso dall’impeto che forse qualcosa di buono per la mia terra posso farla, comincio a proporre le nuove idee.  Nel frattempo intercetto una interessante opportunità a favore dei Comuni per la sostenibilità e l’efficienza energetica relativo alla concessione di contributi a fondo perduto per la realizzazione di interventi di efficientamento energetico e/o di produzione di energia da fonti rinnovabili a servizio di edifici di Amministrazioni comunali delle Regioni Convergenza Calabria, Campania, Puglia e Sicilia) afferente al FESR 2007/2013. Decido di segnalare il bando all’assessore di riferimento e ai dirigenti dell’UTC, sono convinto che sia una opportunità da non perdere, ci sarà un risparmio per tutti i cittadini. Dopo le normali 26 ore di anticamera, riesco finalmente a parlare e ad esporre i contenuti del bando, mi dicono che da poco è stato istituito un ufficio Europa che si occupa proprio di intercettare fondi europei, bene !!! mi dico, ancora meglio, forse ne sono già a conoscenza e stanno lavorando per noi (cittadini). Ovviamente non era così. Nasce, a parole, l’intenzione di sfruttare i fondi, ma siamo nel mese di Luglio, i dipendenti devono andare in ferie, poi c’è Agosto e i dipendenti vanno in ferie, poi arriva settembre e il bando è scaduto. Purtroppo conosco molto bene le politiche politicanti dei politici, non ero certo nuovo a queste cose. Ricordo che tanti anni addietro, collaborai alla stesura di un fantastico progetto relativo ad una cittadella dello sport. Riprogettammo una vasta area dismessa e degradata ai fini di poterla restituire alla città composta da un percorso salute, una pista di MTB, due campi di basket, che all’occorrenza potevano essere trasformati in campi di calcetto a cinque o tennis, un campo di calcio a otto e una pista per auto modellismo. Incontri, conferenze stampe, presentazione del progetto, soldi stanziati, tante chiacchiere ed infine il nulla. Non solo, pur avendo in mano le carte, non ricevetti neanche un euro per il mio lavoro, ma ricordo benissimo, non riuscii nemmeno a recuperare le somme da me spese anticipatamente. Lottai e continuo a lottare per ciò che mi spetta, anche con quell’azienda dei render, ma fino ad oggi solo un pugno di mosche. Tentai diverse volte, nella mia ingenuità, di collaborare con l’amministrazione, di proporre progetti per valorizzare il territorio locale, per avvantaggiare la cittadinanza tutta ai fini del risparmio economico, ricevetti solo promesse, belle parole, e calci in culo. Generalmente non mi arrendo facilmente combatto da buon praticante di arti marziali, fino alla fine, ma come dice Bruce Lee, “la fine giunge solamente quando tu decidi che sia finita”, io ho deciso. Non posso continuare a parlare con chi non vuole ascoltare, non posso perdere il mio prezioso tempo inutilmente, ho troppe cose da fare ancora in questo cammino chiamato vita, non posso sottomettermi a squallide tecniche di sfiancamento perché così è stato deciso, non ho padroni, non ho santi, sono un uomo libero e tutto quello che di buono ho fatto nella mia professione, l’ho fatto con testardaggine e buona volontà, cammino a testa alta senza dovermi sentire in obbligo verso qualcuno o qualcosa. Ma la città, sebbene passiva, non dimentica. Nel 2006 acquistai un blocco di pietra locale, cosiddetta di “Sabucina”, e creai un evento che a Caltanissetta non si era mai visto, scolpire un blocco di pietra di due tonnellate dal vivo in una settimana. Contatto un bravo scultore, gli proposi l’iniziativa che accettò di buon grado, dicendomi che cose di questo genere le aveva viste solo all’estero. L’artista fu di parola in una sola settimana scolpì quell’enorme ammasso di pietra trasformandolo in un oggetto d’arte. Nonostante i soliti malumori, la risposta della cittadinanza fu molto positiva. Dovetti lottare altri due anni per far posizionare la scultura intesa come arredo urbano, un regalo che noi come associazione e lo scultore ci prendemmo la briga di fare alla nostra città. Nessuno all’interno dell’amministrazione di allora sembrò interessarsene, finita la scultura e fatta la loro campagna elettorale, tutto era finito nel dimenticatoio. Mi sembrò più che corretto e lo rifarei ancora oggi, finire quello che avevamo iniziato. Come al solito belle parole e niente più. Cosa centra tutto questo con la professione di architetto? Apparentemente nulla, ma io mi sento in primis cittadino che ama la propria città, e se all’abbellimento non ci pensa chi è pagato per farlo, allora ci penso io. Cosa centra la bellezza? "Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore (Peppino Impastato)".
    Mio padre mi diceva sempre, quando ero piccolo, “mi raccomando non fare mai società con nessuno e specialmente con amici e parenti”, bhè…aveva ragione, ma purtroppo io sono testardo, se non lo vedo non ci credo, così, prima di lavorare nell’ambito dell’imprenditoria agricola, avevo fatto la mia prima società (società di servizi) con il mio miglior amico di quel tempo, era all’incirca il 2006. Avevamo unito le forze per lavorare, ognuno con il proprio ambito, e mentre continuavo imperterrito a credere nella professione di architetto, mi impegnavo in questa direzione comunitaria. Date le conoscenze acquisite tramite le mie esperienze pregresse, contatto un cliente per proporgli un lavoro. Egli accetta di buon grado, per cui cominciamo a stendere le prime idee progettuali ed a sottoporgliele, durante i nostri incontri parlammo ovviamente del compenso, e in quel momento, come un “uroboro”, il tempo sembrò fermarsi e riavvolgersi all’infinito. Capii che se volevamo andare avanti, dovevamo trovare un compromesso….il solito compromesso….ovvero soldi non c’è né!!! Dopo circa due ore di chiacchiere, incontri, scontri, insulti, riucii ad ottenere un ottimo compromesso, i soldi erano spuntati, certo non tutti ma pensai che con un piccolo sconto sia il cliente che noi potevamo essere soddisfatti. Per cui torno allo studio e spiego le nuove condizioni ai miei soci. Ebbene il mio migliore amico mi mandò a fare in culo, non ho mai capito bene quale motivazione. Bhè…la motivazione ufficiosa era che lui voleva e pretendeva assolutamente quanto stabilito, per cui se qualcuno doveva percepire una riduzione di onorario… quello ero io. Basito e scioccato dalle dichiarazioni e dalle parole forti che uscirono dalla sua bocca, gli chiesi di calmarsi e riparlarne il giorno dopo. Ebbene il giorno dopo arrivato allo studio, lo trovai semivuoto, il mio migliore amico se ne era andato senza avvisare me o il proprietario di casa lasciandomi in mezzo ai debiti (affitto e utenze da saldare), nonché il progetto sfumato. Avevo imparato a non fidarsi delle amministrazioni pubbliche, a non fidarsi degli estranei, adesso avevo imparato che mio padre aveva ragione. Come al solito mi rimboccai le maniche e continuai imperterrito nella mia missione: diventare Architetto!  

Carlo Gibiino


L’architetto non si paga 
     
   Dopo aver trascorso il mio periodo in Irlanda, parto alla volta della Danimarca, la famiglia che mi ha ingaggiato vive in una piccola cittadina a circa 120 Km a sud di Copenaghen, mi vengono a prendere alla stazione e scambiamo le prime parole giusto per conoscerci. Appena arrivati a casa, vengo presentato al resto della famiglia composta da tre figli di cui uno da poco diplomato, due piccole e simpatiche canagliette, il nonno, un cane, un paio di gatti, due maiali. È una fattoria abbastanza grande composta da quattro edifici di cui uno quasi del tutto riammodernato, uno in buone condizioni ma da rifinire, e altri due adibiti a fienile. Mi accompagnano nella mia camera, e ci diamo appuntamento per la cena (in Danimarca, come in quasi tutti i paesi del nord Europa, si cena per le 18.00), mi sistemo, mi faccio una doccia e ci ritroviamo tutti insieme a cena a parlare tra le altre cose anche del progetto di ristrutturazione. Ormai è buio, quindi senza entrare nei dettagli finita la cena ci diamo appuntamento per il giorno dopo alle ore 8.00 per la colazione ed iniziare i lavori. Il mattino seguente, dopo una lauta colazione, inizio a fare il rilievo geometrico e fotografico della struttura, mi dà una mano il figlio Jens, con il quale intraprendiamo una interessante discussione sulla vita. Mi racconta che ha conseguito il diploma l’anno precedente, e che al momento si sta prendendo un anno sabbatico per riflettere su cosa voglia fare da grande, mi spiega che in Danimarca lo Stato paga gli studenti perché Loro, gli studenti, per lo Stato Danese, sono una risorsa e quindi non è contemplato che i figli gravino sulle tasche dei genitori, così lo Stato apre un fondo a nome dello studente e versa dei soldi che può ritirare solo al momento del diploma e quindi con il raggiungimento della maggiore età. Molti ragazzi infatti dopo il diploma scelgono di intraprendere un viaggio in giro per l’Europa, altri comprano un auto, altri ancora invece usano il fondo per iscriversi all’università, la quale essendo statale è completamente gratuita, significa che non si pagano libri, dispense o fotocopie, e inoltre anche durante gli studi universitari lo Stato continua a dare un benefit mensile di circa 600 Euro fino al completamento degli studi; l’Università offre anche opportunità lavorative, infatti, durante il semestre accademico è possibile trovare Student Jobs o tirocini con rimborso spese in aziende. Inoltre i corsi sono tutti in Inglese, anche per integrare le migliaia di studenti che ogni anno si iscrivono da tutta Europa. I danesi in realtà non sono molto contenti di questo, preferirebbero usare la loro lingua ufficiale, ma in compenso parlano inglese benissimo come seconda lingua non ufficiale ma “ufficiosa”. Rimango letteralmente scioccato.
   Jens mi dice che non ha più voglia di studiare e che non appena finito l’anno sabbatico sicuramente troverà lavoro, perché in Danimarca non è un problema.
I giorni passano velocemente, e gli ospitanti mi fanno veramente sentire a casa, tanto che mi preparano degli ottimi pasti, quasi mi viziano, una sera addirittura la “matrona”, mi prepara un gustoso piatto di lasagne al forno, oltre che piatti tipici della cucina Danese. Anche io contribuisco alle delizie del palato, gli preparo un risotto ai funghi, una pasta alla norma, la classica pasta asciutta, involtini di carne, addirittura la pizza, il cibo oltre ad essere espressione della cultura di un popolo è indice della nostra identità e della nostra appartenenza, e stimola la conversazione.
     Una sera mi portano anche a cantare in un coro gospel, di cui fanno parte, conosco tanta altra gente di differenti età, tutti ovviamente parlano inglese, usano tablet, pc e cellulari di ultima generazione, e si mostrano abbastanza ospitali e calorosi.
I l lavoro continua, comincio a redigere alcune ipotesi progettuali, realizzo un modello tridimensionale, eseguo alcuni render e ne parlo con i committenti, i quali restano piacevolmente colpiti dal mio lavoro, ovviamente tra le tre ipotesi fatte la scelta (come sempre) ricade sulla prima, ci confrontiamo nascono nuove idee e spunti, esigenze e pian piano si va delineando il progetto definitivo. In Danimarca, la legislazione urbanistica, come quella civile, è molto snella, pochissime norme semplici e facili da seguire, non ci sono richiami, postille, decreti del presidente della repubblica, del senato del consiglio, non ci sono contraddizioni, tutto si svolge nella massima serenità e velocità. Nel giro di circa 30 giorni finisco tutta la fase progettuale, mi riempiono di complimenti mi pagano immediatamente e mi dicono “grazie”…..mi sento commosso, nessuno mi aveva mai detto grazie in Italia, neanche quando sono riuscito a risolvere problemi normativi apparentemente insormontabili, neanche quando il cliente al momento del pagamento mi inizia a stonare la testa con la solita “tiritera” di convenienza: è un momento di crisi, non ci sono soldi, devo risparmiare ecc…. e lì comincia un balletto sgraziato attorno al prezzo già convenuto e accettato. Mi pongo domande ma non riesco a darmi alcuna risposta. Se non hai i soldi, perché ti impegni a spenderli? Perché quando un architetto chiede il suo onorario chiunque è sempre insoddisfatto? Perché l’architetto non si paga o si paga come qualcuno che chiede l’elemosina? L’architetto non mangia, non beve, non ha un mutuo, non ha famiglia…..non ha studiato e non è preparato!!! Ma cosa vuol dire essere un buon architetto in Italia? A questo so rispondere. In Italia essere un buon architetto, anzi il migliore, significa dichiarare il falso, architettare sotterfugi per far passare, in deroga o meglio ancora senza farsene accorgere, illeciti edilizi commessi o in fase di realizzazione, significa far fare al proprio committente tutto quello che vuole in barba a leggi, norme, decreti ecc….significa fare il passacarte, avere amicizie politiche e trasformare il carbone in oro anche quando non è carbone. In più se riesci anche a portare la colazione durante le fasi di cantiere, sei veramente il più bravo in assoluto. Bene !!!! si fa per dire….chiarito che il cliente ha trovato il miglior architetto sulla piazza, egli può diventare, nel giro di poche ore, il peggiore in assoluto, quello da evitare come la peste nera e soprattutto da non pagare assolutamente, tanto cos’ha fatto??? Per due linee e quattro fogli scritti…. Ma di chi sono le responsabilità di tutto questo? Sono politiche e culturali. Cominciando dal sistema scuola che fa acqua da tutte le parti, soprattutto le Università, chi uscendo dall’università italiana può dire di saper fare il proprio mestiere? Al momento non ne conosco. L’università, per definizione, è una istituzione scientifico-didattica e culturale in senso ampio, pubblica o privata, che rappresenta il più alto livello di istruzione, ed è articolata in facoltà dove si svolge la didattica e in dipartimenti dove si effettua la ricerca. Si avete letto bene, rappresenta il più alto grado di istruzione. Le Università hanno l’obbligo morale, culturale e didattico di insegnare una professione, ma in realtà così non è.
    Primo: il numero chiuso per entrare in un corso di studi non ha completamente senso, oltre ad essere anticostituzionale è una farsa, non si può negare il diritto allo studio e se lo Stato vuole fare selezione, la stessa la si deve fare all’interno delle Università e non fuori.
    Secondo: le Università Italiane sono esasperatamente teoriche a discapito della inesistenza della pratica. Prendiamo l’esempio egli studi di architettura; in cinque anni di alto grado di istruzione, noi studenti, non siamo mai andati in un cantiere, non ci hanno mai fatto redigere un computo metrico, per non parlare della gestione di un cantiere, della direzione dei lavori, della conoscenza dei materiali, delle prove di laboratorio. Essere Architetto significa essere operaio, muratore, carpentiere, gessista, significa essere un maestro d’arte qualificato. Le università hanno bisogno di una riforma culturale e istituzionale. Formare professionisti non vuol dire solamente studiare i principi e le filosofie dei maestri del passato, ma significa anche e soprattutto comprenderne le varie tecniche. “ L'architettura, disciplina dell'edificare, sceglie, dirige e giudica i contributi pratici e teorici di molte altre scienze ed arti. (…) il vero architetto dovrà possedere doti intellettuali e attitudine all'apprendere… Sia perciò competente nel campo delle lettere e soprattutto della storia, abile nel disegno e buon matematico; curi la sua preparazione filosofica e musicale; non ignori la medicina, conosca la giurisprudenza e le leggi che regolano i moti degli astri... (Vitruvio, architetto del I secolo a.C.De architectura)”. Ma come possiamo apprendere senza insegnamento?
     Studiare in Italia è diventato un passatempo per i giovani ed un investimento inutile per i genitori che spesso devono anche fare debiti per sognare di dare un futuro migliore a propri figli. Quale futuro? Non ci sono prospettive per i laureati, tanto che nel 2014 gli espatriati sono stati 101.297 con una crescita del 7,6% rispetto al 2013, è questo il quadro che emerge dal Rapporto Italiani nel mondo 2015 della Fondazione Migrantes. Secondo i dati Istat l’investimento in capitale umano che viene perso per l’espatrio dei laureati ammonta a 851 milioni. 

      Carlo Gibiino



Se non fossi ottimista sarebbe impossibile essere architetto 

   
     Stando ai dati reddituali diffusi dagli esperti, volendo calcolare la pensione media di un un giovane che si iscrive a Inarcassa nel 2013 a 28 anni, con un reddito annuo medio di partenza che oggi è pari a 10.000 - 12.000 euro, andando in pensione nel 2050 a 65 anni, percepirà 11.000 euro, contro i 27.000 euro delle vecchie pensioni, pari al 34% del reddito, con un abbattimento di oltre il 60% delle retribuzioni prima della riforma. Ovvero contributi, vincolati per trent’anni, che saranno restituiti con un rendimento dell’1%.  Ancora oggi, secondo i dati inarcassa, un professionista del Sud Italia dichiara un fatturato intorno i 13.000 Euro, ma come possiamo affrontare tutte le spese con redditi così bassi? Tra IVA, cassa di previdenza, imu, tarsu, tasi, affitto e relative utenze che nel nostro caso sono raddoppiate ( casa e studio), dove dobbiamo prendere i soldi per il sostentamento primario (cibo, vestiti ecc..)? Durante la mia esperienza di vita e professionale, ho avuto la fortuna di conoscere altre culture in cui lo stato è sempre presente e i cittadini sono anche contenti di pagare le tasse, perché in qualche modo, i soldi versati dalla comunità, hanno un percorso di rientro. Un esempio: nel 2013 mi recai in Danimarca per lavoro, dopo l’ennesima delusione professionale, decisi ancora una volta di puntare il mio sguardo verso altri orizzonti, così misi un curriculum su internet e in breve tempo, ricevetti una proposta di lavoro. Una famiglia danese, mi contatta per trasformare e riammodernare un fienile in spazi abitativi, dopo qualche e mail di scambio, prendiamo appuntamento direttamente sui luoghi per cominciare le prime operazioni di rilievo. Mi offrirono vitto, alloggio ed un congruo pagamento stabilito durante le nostre conversazioni virtuali. Forse era finalmente arrivato il mio momento, il punto di una nuova partenza, stavo espatriando e questa volta ero più deciso che mai. Decisi di affinare il mio inglese scolastico e di frequentare un corso di lingua in Irlanda prima del trasferimento in Danimarca, trovai un alloggio economico e mi iscrissi ad una delle migliori scuole. Là, nel giro di una settimana mi accadde l’inverosimile; conobbi durante la mia prima settimana di permanenza, un collega che lavorava in un prestigioso studio di architettura, dopo i primi convenevoli, mi porta nel suo studio, mi fa vedere i suo lavori, che devo dire erano di alta qualità. Vedevo Architettura, studiata, pensata, ragionata, mi sembrava di essere tornato all’Università, mi sentivo a casa; ci confrontammo su varie tematiche, ci scambiammo i recapiti e cominciammo a frequentarci. Dopo qualche giorno, arriva la proposta di collaborazione, in quel periodo lo studio stava lavorando alla redazione di un progetto per un carcere a Dublino e di un Ospedale. Contentissimo accettai senza riflettere, anche se avevo già un appuntamento ben preciso in Danimarca. Così iniziai a frequentare lo studio, conobbi i vari componenti dello staff tra cui un italo-svizzero, un colombiano, un russo e ovviamente irlandesi. Il mio scarso inglese, migliorava ogni giorno, tra la scuola e il lavoro, nel giro di poche settimane raggiunsi un discreto livello, ma soprattutto, avevo una vita, un lavoro, degli amici e la città dove vivevo, Galway, era ed è davvero affascinante. Un città dalla storia millenaria, per certi versi simile alla nostra, i primi ritrovamenti risalgono all’epoca neolitica, ricca di arte e cultura, di festival, eventi, attività da fare nel tempo libero, piena di parchi e giardini, molti dei quali dedicati ai bambini, un enorme acquario e una prestigiosa università aperta nel 1849 con circa 17.000 studenti immatricolati ogni anno provenienti da tutto il paese, per non parlare dell’enorme afflusso turistico presente in ogni momento dell’anno. Ma come può una cittadina di circa 75.000 abitanti, più o meno come Caltanissetta, avere queste potenzialità? Ebbene parlando con i residenti autoctoni, ho potuto constatare che, sebbene anche lì esista come in qualsiasi altra parte del mondo, una certa corruzione, le amministrazioni, tanto locali quanto statali, investono sul territorio, anche attraverso un lavoro di immagine, per favorire l’attrazione turistica e culturale, ovvero un approccio sinergico alla promozione del territorio. Tradotto in italiano si chiama “marketing territoriale” il quale promuove un prodotto particolare il territorio, ovvero l’insieme di quelle peculiarità (geografiche, storiche, artistiche, paesaggistiche, ecc.) che rendono un’area unica ed irripetibile. Un approccio moderno e manageriale della promozione territoriale deve partire proprio dall’analisi delle risorse tangibili ed intangibili di un territorio, per definire strategie di promozione efficaci che rendano il territorio un prodotto “appealing”, in grado di intercettare la domanda locale ed internazionale. Il prodotto è rappresentato da un insieme di luoghi, eventi, infrastrutture, servizi, attrazioni (entertainment, cultura, sport, eventi) e di soggetti-attori (chi gestisce l'offerta). L'obiettivo strategico che si intende raggiungere è il rafforzamento della competitività del territorio come destinazione turistica. Bene a Galway lo hanno fatto e lo continuano a fare. Ma perché in Italia invece la situazione è decisamente peggiorata? Siamo più stupidi? Siamo più ignoranti? La risposta è nella gestione della “res pubblica” secondo il rapporto di Corruption Perception Index 2014 di Transparency International, l’Italia è prima per corruzione tra i paesi dell’UE e resta stabile al sessantanovesimo posto mondiale, come lo scorso anno, ma sconta scandali come Expo e Mose, senza contare che le rilevazioni sono state eseguite prima che scattasse lo scandalo «Mafia Capitale» a Roma. Dobbiamo per forza pensare che si stava meglio quando si stava peggio? Io non ci sto!!! La prima università pubblica è stata la prima delle cinque università di Napoli voluta nel 1224 da Federico II “Stupormindi”, la più antica università d’Europa è quella di Bologna fondata nel 1088, l’Italia è il paese che possiede il patrimonio artistico e culturale più importante del mondo, sia in termini di quantità (siamo il paese con la maggior distribuzione di musei sul territorio) che di qualità, ma sta cadendo a pezzi, ormai è sotto gli occhi di tutti. PricewaterhouseCoopers ha presentato il rapporto “Il valore dell’arte: una prospettiva economico – finanziaria” da cui si evince un forte gap competitivo del ritorno economico del patrimonio artistico- culturale italiano rispetto agli altri paesi ed una scarsa capacità da parte del sistema Italia di sviluppare il potenziale del nostro paese. L’Italia, si legge nel rapporto, possiede il più ampio patrimonio culturale a livello mondiale con oltre 3.400 musei, circa 2.100 aree e parchi archeologici e 43 siti Unesco. Nonostante questo dato di assoluto primato a livello mondiale, il RAC, un indice che analizza il ritorno economico degli asset culturali sui siti Unesco, mostra come gli Stati Uniti, con la metà dei siti rispetto all’Italia, hanno un ritorno commerciale pari a 16 volte quello italiano. Il ritorno degli asset culturali della Francia e del Regno unito è tra 4 e 7 volte quello italiano. A fronte della ricchezza del patrimonio culturale italiano, rispetto alle realtà estere esaminate, emergono enormi potenzialità di crescita non ancora valorizzate. Secondo il FAI (fondo ambiente italiano) i francesi con l'operazione Mission Val de Loire, si prendono cura del loro paesaggio e incassano, gli americani, sono bravissimi nel gestire la singola organizzazione, un esempio su tutti, il Getty Museum di Los Angeles. In Italia, purtroppo c'è ancora molto da fare. E non si tratta solo di mancanza di fondi: il Real Sito di Carditello, fattoria modello dei Borbone in provincia di Caserta, nel 2004 ha ricevuto 2 milioni e 400 mila euro per il restauro, ma oggi versa in condizioni deplorevoli. Ma al nord la situazione non è migliore come testimoniano certe sale della Villa Reale di Monza.  Un paese senza ricerca e senza cultura è u paese che è destinato a diventare sottosviluppato” (Margherita Hack).

     Carlo Gibiino



 Sogni, ambizioni e traguardi

Quando ho concluso i miei studi universitari presso l’Ateneo di Palermo, ero pieno di entusiasmo, di forza, di sogni, immaginavo che, col tempo, avrei creato uno studio associato, che con l’arrivo paziente dei miei primi 40 anni avrei potuto dire di essere un professionista. Iniziai sin da subito a lavorare presso un giovane studio di progettazione a Monreale, con il quale cominciai a percorrere i primi passi in questo affascinante mondo fatto di progettazione, di committenza, di questioni burocratiche. Ero felice di fare le mie prime esperienze e anche se lavoravo gratis, a quel tempo non mi importava, volevo solo fare esperienza, toccare con mano tutto quello che all’Università non ci insegnano ma che fa parte integrante di questo splendido mestiere. Per cui mi sono buttato giù a capofitto, come sono solito fare, nelle mie mansioni, che ovviamente all’inizio erano per lo più di semplice disegnatore cad. Dopo circa un anno, avevo imparato tante cose, ma purtroppo non ero ancora mai stato in un cantiere, non avevo redatto un computo metrico, non conoscevo le fasi di realizzazione di una costruzione, cose fondamentali per un professionista, ma che neanche l’Università mi aveva dato. In quel momento non ci pensavo molto, c’era tanto lavoro da fare, a me piaceva e in più cominciavo a guadagnare i primi soldi che, ovviamente, sono sempre uno stimolo positivo e gratificante. Dopo qualche altro mese, però, successero dei gravi fatti che mi fecero allontanare da quello studio, si è vero sono orgoglioso ma a certi compromessi non si scende, forse se fossi stato più maturo avrei potuto gestire la situazione in maniera diversa, in ogni caso mi ritrovai senza lavoro e senza soldi, per cui iniziai a pensare al mio futuro. Cominciai a cercare lavoro su internet, stampai diversi curriculum e mi girai quasi tutti gli studi di architettura e di ingegneria di Palermo, con la mia italianissima vespa, consegnando fiducioso i miei “santini”, ma nulla di nuovo accadde. Una sera mi ritrovai da solo a bere una birra in un noto quartiere di Palermo, lì incontrai un mio amico che a quel tempo lavorava presso l’Università come dottorando e mi propose di aprire uno studio a Caltanissetta. Ero al settimo cielo, finalmente il mio studio da professionista. Lui mise a disposizione un appartamento di sua proprietà, feci realizzare una splendida targa in ceramica, ricordo ancora l’emozione nel fissarla al muro esterno dell’edificio, restai a guardarla un po’ soddisfatto di me, poi salii sopra e cominciai a sistemare i miei arredi, scrivania, computer, i miei amici mi regalarono una bellissima lampada da tavolo, appesi alcuni quadri, comprai delle sedie un armadio, insomma creai il mio piccolo spazio. Il mio socio, non era molto presente, in quanto impegnato con i suoi affari universitari, preparare lezioni, scrivere tesine ecc….ma quelle poche volte che ci incontravamo parlavamo di come potessimo utilizzare i finanziamenti della comunità europea per iniziare la nostra nuova avventura. Così un giorno, arrivò il nostro primo cliente interessato a voler investire una grossa somma di denaro e trasformare una sua proprietà in struttura ricettiva. Andammo a fare un primo sopralluogo per poi completarlo con rilievo geometrico, rilievo fotografico, ricerche al catasto ecc… studiammo il bando e non appena avemmo il quadro completo, ci incontrammo nuovamente per prendere gli accordi definitivi e cominciare la fase progettuale. L’incontro andò abbastanza bene tranne per un fatto; appena parlammo di soldi, spese vive e rimborsi, quindi senza accennare in alcun modo al nostro onorario, il cliente cominciò a storcere il naso, dicendoci chiaramente che anche altri professionisti si occupavano di finanziamenti, ma che a loro non era dovuto nulla. Perplessi ci guardammo negli occhi e ci lasciammo con l’impegno di risentirci presto per ulteriori sviluppi. Con il mio socio ne parlammo per giorni, non era una facile decisione, quello era il nostro primo lavoro che avrebbe potuto portarci tanti benefici…..si!!!....ma le spese chi le paga???? Prendemmo la nostra decisione e la comunicammo al cliente il quale non si fece più sentire ne vedere. Mi ritrovai nuovamente senza sapere cosa avrei potuto fare, mi iniettai una bella dose di menefreghismo, orgoglio e umiltà e pensai di voler creare una rivista che parlasse di architettura e di arte dedicata ai colleghi Siciliani, o quantomeno al momento pensai ad una diffusione provinciale per poi allargarla in ambito regionale. Cominciai a studiare, a progettare, a coinvolgere amici e colleghi al fine di realizzare il mio sogno. Non fu affatto facile, ma alla fine ci riuscii, nacque il MIAC (movimento internazionale architettura contemporanea), supportata da un associazione di architetti chiamata MAAC (movimento per l’architettura e l’arte contemporanea) di cui ne ero il presidente. La rivista era sia cartacea che digitale, mi iscrissi all’albo dei giornalisti e diventai il direttore responsabile della rivista, ma contemporaneamente ricoprivo anche altre figure, come il grafico, il procacciatore di sponsor e ovviamente anche redattore; procurai anche una casa editrice disposta a collaborare, mi occupai della registrazione al tribunale, insomma feci tutto quanto servisse per la regolarizzazione della rivista. Cercai anche dei finanziamenti a livello locale, mi rivolsi all’Ordine degli Architetti non solo per avere un aiuto economico ma anche e soprattutto gestionale, pensavo nella mia ingenuità che avrei trovato le porte aperte, anche perché ricordo ancora il discorso che il Presidente dell’Ordine  fece ai nuovi iscritti, (era il 2003) presentandosi come un amico al quale avremmo potuto rivolgerci per qualsiasi dubbio, informazione,  problematiche varie ed anche per valutare nuove proposte. Di fatto così non fu, trovai invece ostacoli ovunque anche per farmi consegnare l’albo degli iscritti, albo che risaliva e che credo ancora oggi sia così, al 1996 nonostante l’art. 22 del R.D. 23 ottobre 1925, n. 2537, regolamento per le professioni d’ingegnere e di architetto così recita: “il consiglio dell’ordine, nel mese di Gennaio di ogni anno, provvederà alla revisione dell’albo,, portandovi le varianti che fossero necessarie”; mentre all’art. 23 dello stesso R.D.: “l’albo stampato a cura e spese dell’ordine, è inviato alla corte di appello, ai tribunali, alle preture, alla prefettura ed alla camera di commercio, aventi sede nel distretto dell’ordine” e ancora: “potrà inoltre essere trasmesso a quegli enti pubblici e privati che il consiglio reputerà opportuno e, dietro pagamento, dovrà essere rilasciata copia a chiunque ne faccia richiesta”. Dovetti faticare non poco per superare le infinite ed inutili problematiche, ma alla fine mi diedero l’albo in formato pdf, con la promessa che l’anno successivo avrebbero stampato l’albo aggiornato; sta di fatto che siamo nel 2016 ma non esiste a tutt’oggi un albo aggiornato stampato. Messe di lato le mie perplessità, i miei dubbi e le mie delusioni, andai avanti nel mio progetto, nel frattempo anche i colleghi che avevano dato la loro adesione, erano spariti così mi ritrovai da solo, non è una novità, mi rimboccai le maniche e feci uscire il primo numero il 28 ottobre 2005 davanti ad una sala gremita di cittadini, colleghi e semplici curiosi. Fu la mia prima conferenza stampa. Andò meravigliosamente bene, ci fu un interessante dibattito e alla fine tornai a casa soddisfatto di me. Pieno di entusiasmo, mi misi immediatamente all’opera per far uscire il secondo numero, nel frattempo con l’associazione organizzai diverse manifestazioni culturali, workshop, dibattiti, incontri, in collaborazione anche con altre associazioni del territorio. Senza saperlo mi misi in mostra, e se da un lato diventai un personaggio scomodo, dall’altro cominciavano ad arrivare i primi lavori, si è vero di piccola entità, ma passai alcuni anni a pieno regime, non dico a livello economico, ma quantomeno a livello professionale. Cominciai ad essere il tecnico di varie attività commerciali, a fare alcune ristrutturazioni d’interni e ad un certo punto non riuscii più a dedicarmi alla rivista la quale, nonostante avesse una cadenza trimestrale, si fermò a cinque numeri. Nel frattempo fui contattato dallo IUAV, da una importante casa editrice del Sud Tirol, avevo stretto rapporti con il Presidente dell’allora consorzio universitario di Caltanissetta, cominciavo ad allargare i miei orizzonti. Erano già passati tre o quattro anni dalla mia abilitazione alla professione quanto mi resi conto che tutto facevo tranne che l’Architetto, iniziai a pensare di voler andare all’estero. Appassionato di grafica, cominciai a studiare un programma per realizzare rendering di alto livello, presi anche una certificazione per saper usare un programma cad che già conoscevo abbastanza bene, tanto che le lezioni per me erano anche noiose, ma lo feci in prospettiva di volere espatriare e di poter certificare le mie competenze. Alla fine del corso, l’insegnante mi segnala una possibilità lavorativa e mi mette in contatto con un’azienda di Palermo che si occupava di rilievi di grosse strutture appartenenti allo stato ai fini di catalogarle e metterne in risalto lo stato dei luoghi. Così presi un appuntamento, feci un colloquio e il giorno dopo iniziai, prendemmo un accordo economico per il primo mese come prova quantificabile in un rimborso spese, anche perché mi trasferii nuovamente a Palermo con conseguenti ulteriori spese. L’ambiente lavorativo era abbastanza gioviale, feci amicizia con tutti in breve tempo e devo dire, con mia soddisfazione, che sia il capo che i colleghi avevano apprezzato il mio modo di lavorare, veloce e puntuale. Passato il primo mese di prova, andai a parlare con il capo, chiedendo informazioni sui nostri accordi futuri, mi sento rispondere che la cifra stabilita € 500,00 al mese, per circa 10 ore di lavoro consecutive al giorno tranne un ora di pausa pranzo, erano più che sufficienti e non potevo pretendere di più. Senza fare troppe discussioni, capito l’andamento dei fatti, lasciai perdere e tornai a Caltanissetta deciso più che mai ad espatriare. Vengo contattato da una azienda, che si occupava di forniture ed arredi per locali ristorazione, (bar, tavola calda, ristoranti ecc…) per la realizzazione di render, così vado a fare due chiacchiere con il titolare il quale mi pone davanti una gran bella mole di lavoro, chiariamo anche l’aspetto economico e contento ed entusiasta della discussione torno a casa e cominciamo dal giorno dopo la nostra collaborazione. Nel frattempo cominciano ad arrivare altri lavori, perizie estimative, consulenze con il tribunale, mi metto nuovamente a regime, nonché anche una collaborazione con un grosso studio Svedese, l’idea dell’espatrio mi sembra più vicino adesso. Per la prima volta mi occupo di architettura, sono di nuovo al settimo cielo.

Dopo un periodo di regolare rapporto lavorativo con l’azienda dei render, la chiameremo così per comodità, in cui i pagamenti e le consegne avvenivano in maniera pressoché puntuali, arrivò il momento dei pagamenti in ritardo. All’inizio si trattò di 30 giorni circa, poi di 60, poi 90 fino al punto di aspettare anche sei mesi- un anno senza ricevere alcun pagamento. Cercai all’inizio, come sono solito fare, di trovare un accordo bonario, smisi ovviamente di lavorare per loro almeno fin quando non mi avrebbero saldato i compensi emessi con regolare fattura. Il proprietario mi chiese gentilmente di poter pazientare ancora un po’, io ebbi tanta pazienza, ma alla fine dopo due anni senza alcuna notizia decisi di rivolgermi ad un avvocato, per recuperare la somma. Bhè….sono passati, non ricordo più…..almeno SETTE anni, ma io non ho ancora visto nulla se non spese, spese e spese.  Oltre alle spese legali, sono stato anche costretto dallo Stato a versare l’iva e pagare la cassa di previdenza anche per le fatture non incassate. Abbiamo dovuto aspettare il  “decreto sviluppo bis” DL 83/2012 del 1° Dicembre 2012, meglio conosciuto come regime “dell’Iva per cassa”  per versare l’Iva solo quando viene pagata la fattura. Sembra che il legislatore abbia avuto un colpo di genio, ma come funziona?  Il cosiddetto regime dell’Iva per cassa, dà la possibilità per il contribuente-partita Iva di versare l’imposta sul valore aggiunto quando riceve il pagamento della fattura. Finora – e soprattutto in questi ultimi tempi di crisi e di ritardati o mancati pagamenti – succedeva di dover anticipare allo Stato un’imposta su un reddito non percepito. Tutti i titolari di partita Iva che fatturano meno di 2 milioni di euro all’anno possono scegliere di applicare al versamento dell’Iva il principio "di cassa". Questo però vale solo per le operazioni verso altri titolari di partite Iva e non verso i privati consumatori (utenti finali). Com’è noto, l’Iva è una "partita di giro", cioè la si incassa dal cliente e la si versa al fisco.  Quindi se non incasso non verso? Purtroppo non è così. Indipendentemente dall’avvenuto incasso da parte del cliente, l’Iva va comunque versata entro un anno dalla vendita o dalla prestazione del servizio a meno che il nostro cliente non sia fallito o sia stato coinvolto in qualche procedura concorsuale (concordato preventivo, amministrazione straordinaria, ecc.). Inoltre chi sceglie il “cash accounting" dovrà riportare sulle fatture emesse l’annotazione che si tratta di operazione con “IVA per cassa” ai sensi dell’articolo 32-bis del decreto legge 22 giugno 2012, n. 83. La scelta di aderire al sistema dell’Iva per cassa deve essere comunicata nella dichiarazione Iva relativa all’anno in cui iniziamo ad adottare il nuovo sistema. Per esempio, se utilizziamo l’Iva per cassa dal 2013, la scelta va comunicata nella dichiarazione Iva del 2013 che deve essere presentata nel 2014. La scelta ci vincola per tre anni. Quindi se scegliamo di adottare questo sistema dal 2013 dovremo applicare il regime anche nel 2014 e nel 2015 per tutte le nostre operazioni. Sempre che il nostro fatturato rimanga sotto la soglia dei 2 milioni di euro, superata la quale l’Iva per cassa non si può più applicare. Bhè… leggendo il decreto non sono più tanto convinto che il legislatore abbia usato bene la sua “intelligentia” . Innanzitutto bisogna aderire, come se sapessi in anticipo chi mi pagherà all’emissione della fattura e chi no, anzi presuppone che lo Stato conosca perfettamente la situazione e la accetti passivamente, se non scrivo la corretta dicitura in fattura rischio anche una multa e se non ricevo il pagamento entro un anno sono ugualmente costretto a versare l’iva; in poche parole, siamo sempre noi contribuenti onesti a pagare tutte le spese, anche quelle non dovute. Lo stesso dicasi per il mio specifico caso di cui sopra, emetto fattura, il cliente non paga, ma io non solo devo anticipare tutte le spese ma non ho nessun tipo di garanzia per recuperare il credito. Mi sono arrovellato il cervello per cercare di capire come mai accade tutto questo, mi sono domandato più e più volte perché lo Stato non ci tutela? Perché in Italia deve sempre averla vinta il malandrino? Stesso discorso vale anche per l’INARCASSA, siamo costretti a versare un contributo minimo, da corrispondere indipendentemente dal reddito professionale dichiarato, il cui ammontare varia annualmente in base all’indice annuale ISTAT. Per l’anno 2015 è fissato in € 2.280,00. Ma cosa vuol dire? Anche se un professionista chiude l’anno con reddito ZERO, o anche con piccoli importi, è costretto a pagare senza alcuna garanzia. Si legge sulla rivista Inarcassa n. 2 del 2010: nel 2003 il debito previdenziale era di 13,7 miliardi di Euro; nel 2006 il debito previdenziale ra di 20,7 miliardi di Euro; ovvero 7 miliardi in 3 anni.

Carlo Gibiino

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