Foster and Partners, Apple Park, Cupertino |
La dimensione delle cose è da
sempre fonte sia di illusione che di delusione: sebbene davanti le Piramidi e
la Muraglia cinese l’uomo si esalti per la propria capacità di realizzare opere
colossali, John Cheever nel romanzo “Cronache della famiglia Wapshot”
sottolinea come gli sconfinati e labirintici percorsi della mente tendano a
farci immaginare edifici quali il Pantheon o l’Acropoli più grandi di quanto
siano in realtà.
A metà degli anni Novanta Rem
Koolhaas descrive la “bigness” (grande dimensione) come una nuova specie
architettonica che, grazie al supporto
tecnologico, si dilata fino a entrare in una sfera amorale oltre il bene e il
male. La grande dimensione produce una serie di rotture con scale metriche,
strategie compositive, tradizioni locali, a causa delle quali l’impatto di un
edificio sul sito non dipende più dalla sua qualità; la dismisura esiste, o al
massimo coesiste, con il contesto senza instaurare alcun rapporto, poiché «non
ha più bisogno della città: è in competizione con la città; rappresenta la
città, svuota di significato la città; o, ancora meglio, è la città» [Bigness,
1994].
L’esempio più recente che incarna perfettamente la teoria della bigness
è l’Apple Park, il “centro per la creatività e la collaborazione” voluto
da Steve Jobs e progettato da Norman Foster in un’area di settanta ettari a
Cupertino in California. Il campus, costituito da un edificio ad anello che
contiene duecentosessantamila metri quadri interamente rivestito da enormi
pannelli di vetro curvo, si configura come un vero e proprio sistema urbano per
dodicimila impiegati: al suo interno ospita uffici, laboratori di ricerca, un
auditorium, un centro visitatori con spazi commerciali e caffetteria, un centro
benessere e attrezzature varie. L’Apple Park vanta il primato di possedere il
più grande impianto solare sul tetto e di essere l’edificio più grande del
mondo a ventilazione naturale.
Se le principali aziende
celebrano la propria presenza nel mercato globalizzato attraverso imponenti strutture,
Aaron Betsky, in un articolo apparso sul Metropolis Magazine, descrive la
piccola scala come scelta strategica per il futuro dell’architettura civica. Numerosi
edifici di interesse pubblico risultano onerosi nelle spese di costruzione e manutenzione, e i loro spazi
rimangono spesso inutilizzati in buona parte della giornata; le grandi
infrastrutture quali ponti, dighe e strade sono – o dovrebbero essere
urgentemente – oggetto di ricostruzione e riparazione, piuttosto che di nuova
edificazione. La ormai cronica mancanza di fondi induce a focalizzare
l’attenzione su interventi specifici che richiedono finanziamenti maggiormente
ponderati, senza tuttavia farne derivare un’architettura banale e a buon
mercato.
International Architecture JSC, Vegetable Nursery House, Hanoi |
Temendo che le istituzioni civiche non abbiano alcuna ragione di
investire nella qualità architettonica poiché questa non garantisce la
rielezione ai politici né la promozione ai burocrati, Betsky suggerisce di
ricorrere a infrastrutture collettive di piccola scala, anche temporanee, per
svolgere nelle aree periferiche quel ruolo sociale e culturale che stadi e
musei assumono a scala territoriale. Pertanto, agli architetti spetta il
compito di attivare questi piccoli “momenti di speranza” capaci di ricostituire
il senso dei luoghi e della comunità.
È il caso della Vegetable Nursery House di 1+1>2 International
Architecture JSC, risultato della cooperazione tra i governi di Vietnam e
Irlanda per sostenere i cittadini di Hanoi e incoraggiare abitudini più
responsabili dell’ambiente. La costruzione, pur disponendo solo di sei metri
quadri, è una serra per la coltivazione di verdure ma anche un luogo di riposo
per gli agricoltori e di apprendimento per i bambini; composta da canne di
bambù e duemila bottiglie di plastica riciclate, risulta inoltre facilmente
spostabile per assecondare le esigenze della comunità locale.
È giunto il tempo di congedarci,
almeno per il momento, dalla grande dimensione? Certamente si tratta di un
arrivederci e non di un addio, in attesa di tempi migliori in cui potremo
aspirare nuovamente a costruire gigantesche strutture a servizio della società.
Goodbye, Bigness.