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mercoledì 29 marzo 2017

GOODBYE BIGNESS

Foster and Partners, Apple Park, Cupertino
 
La dimensione delle cose è da sempre fonte sia di illusione che di delusione: sebbene davanti le Piramidi e la Muraglia cinese l’uomo si esalti per la propria capacità di realizzare opere colossali, John Cheever nel romanzo “Cronache della famiglia Wapshot” sottolinea come gli sconfinati e labirintici percorsi della mente tendano a farci immaginare edifici quali il Pantheon o l’Acropoli più grandi di quanto siano in realtà.
A metà degli anni Novanta Rem Koolhaas descrive la “bigness” (grande dimensione) come una nuova specie architettonica che, grazie al supporto tecnologico, si dilata fino a entrare in una sfera amorale oltre il bene e il male. La grande dimensione produce una serie di rotture con scale metriche, strategie compositive, tradizioni locali, a causa delle quali l’impatto di un edificio sul sito non dipende più dalla sua qualità; la dismisura esiste, o al massimo coesiste, con il contesto senza instaurare alcun rapporto, poiché «non ha più bisogno della città: è in competizione con la città; rappresenta la città, svuota di significato la città; o, ancora meglio, è la città» [Bigness, 1994].
L’esempio più recente che incarna perfettamente la teoria della bigness è l’Apple Park, il “centro per la creatività e la collaborazione” voluto da Steve Jobs e progettato da Norman Foster in un’area di settanta ettari a Cupertino in California. Il campus, costituito da un edificio ad anello che contiene duecentosessantamila metri quadri interamente rivestito da enormi pannelli di vetro curvo, si configura come un vero e proprio sistema urbano per dodicimila impiegati: al suo interno ospita uffici, laboratori di ricerca, un auditorium, un centro visitatori con spazi commerciali e caffetteria, un centro benessere e attrezzature varie. L’Apple Park vanta il primato di possedere il più grande impianto solare sul tetto e di essere l’edificio più grande del mondo a ventilazione naturale.
Se le principali aziende celebrano la propria presenza nel mercato globalizzato attraverso imponenti strutture, Aaron Betsky, in un articolo apparso sul Metropolis Magazine, descrive la piccola scala come scelta strategica per il futuro dell’architettura civica. Numerosi edifici di interesse pubblico risultano onerosi nelle spese di costruzione e manutenzione, e i loro spazi rimangono spesso inutilizzati in buona parte della giornata; le grandi infrastrutture quali ponti, dighe e strade sono – o dovrebbero essere urgentemente – oggetto di ricostruzione e riparazione, piuttosto che di nuova edificazione. La ormai cronica mancanza di fondi induce a focalizzare l’attenzione su interventi specifici che richiedono finanziamenti maggiormente ponderati, senza tuttavia farne derivare un’architettura banale e a buon mercato.
International Architecture JSC, Vegetable Nursery House, Hanoi 

Temendo che le istituzioni civiche non abbiano alcuna ragione di investire nella qualità architettonica poiché questa non garantisce la rielezione ai politici né la promozione ai burocrati, Betsky suggerisce di ricorrere a infrastrutture collettive di piccola scala, anche temporanee, per svolgere nelle aree periferiche quel ruolo sociale e culturale che stadi e musei assumono a scala territoriale. Pertanto, agli architetti spetta il compito di attivare questi piccoli “momenti di speranza” capaci di ricostituire il senso dei luoghi e della comunità.
È il caso della Vegetable Nursery House di 1+1>2 International Architecture JSC, risultato della cooperazione tra i governi di Vietnam e Irlanda per sostenere i cittadini di Hanoi e incoraggiare abitudini più responsabili dell’ambiente. La costruzione, pur disponendo solo di sei metri quadri, è una serra per la coltivazione di verdure ma anche un luogo di riposo per gli agricoltori e di apprendimento per i bambini; composta da canne di bambù e duemila bottiglie di plastica riciclate, risulta inoltre facilmente spostabile per assecondare le esigenze della comunità locale.
È giunto il tempo di congedarci, almeno per il momento, dalla grande dimensione? Certamente si tratta di un arrivederci e non di un addio, in attesa di tempi migliori in cui potremo aspirare nuovamente a costruire gigantesche strutture a servizio della società. Goodbye, Bigness.
 Emanuele Forzese

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